Il mobbing: nuovi principi espressi dalla Corte di Cassazione.

In generale, il mobbing può definirsi quale fenomeno persecutorio attuato sul posto di lavoro da parte di colleghi o del datore di lavoro nei confronti di un lavoratore, funzionale all’emarginazione o alla sua mortificazione professionale.

In materia di mobbing, la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 6079 del 4.03.2021, ha nuovamente ripercorso gli approdi giurisprudenziali , dettando ulteriori principi che ne consentono di individuare concretamente il perimetro.

Il fenomeno del mobbing è privo, nel nostro ordinamento, di una specifica disciplina che ne individui precisamente gli elementi costitutivi.

Tuttavia, la giurisprudenza della Suprema Corte, attraverso il richiamo ad articoli quale, ad esempio, il 2087 c.c. che impone al datore di lavoro l’adozione di tutte le misure volte a tutelare l’integrità psicofisica dei dipendenti, è giunta a definire in maniera più o meno precisa il perimetro di tale fenomeno giuridico.

Mobbing: il caso specifico

I principi in materia di mobbing, proprio per la mancanza di una disciplina specifica, sono in continua fase di evoluzione, come dimostrato proprio dall’ordinanza in commento.

Nel caso di specie, deciso con l’ordinanza richiamata, la Sezione Lavoro della Cassazione, ha affrontato il caso di una lavoratrice che ha richiesto  venisse constatata l’illegittimità di una serie di sanzioni disciplinari che le erano state irrogate dal datore di lavoro e che venisse riconosciuto come queste fossero giustificate esclusivamente da un intento persecutorio rivolto alla sua persona.

A fronte dell’annullamento, in primo grado, di solo una parte delle sanzioni impugnate, proponeva ricorso per Cassazione facendo valere, tra i vari motivi del ricorso, il fatto che in primo grado ed in sede d’Appello, non fosse stato riconosciuto come le sanzioni che le erano state irrogate, qualificate dalla stessa ricorrente come illegittime, erano tutte frutto di un preciso intento persecutorio nei suoi confronti, sostenendo, quindi, che ciò integrasse i profili del “mobbing”.

La Corte di Cassazione, però, prendendo le mosse da quanto emerso nel giudizio di secondo grado, sancisce come, in tale sede, fosse già emerso che le sanzioni non fossero in alcun modo riconducibili ad un intento “mobbizzante”.

Il mobbing: comportamenti vessatori protratti nel tempo

Partendo da quanto accertato nelle sedi di merito, la Suprema Corte ripercorre gli elementi costitutivi del mobbing, che “designa un fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo”.

Alla luce di tale assunto, quindi, è facile comprendere gli elementi costitutivi del mobbing che consistono in condotte protratte nel tempo, di carattere vessatorio, nei confronti di un lavoratore da parte di colleghi e/o del datore di lavoro, poste in essere con lo specifico scopo di “escludere la vittima dal gruppo” e che determinino, in capo alla vittima, un evento lesivo, sia esso di natura fisica che di natura psicologica.

Il mobbing: i termini della Suprema Corte

Tali elementi costitutivi sono stati individuati dalla S.C. nei seguenti termini: “ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro rilevano i seguenti elementi :

a) la molteplicità dei comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;

b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;

c) il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del suo superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore;

d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio”.

Mobbing: la prova è sempre a carico del lavoratore

Naturalmente, tali elementi devono essere specificamente e meticolosamente provati dal ricorrente e il giudizio circa la sussistenza è esclusivamente riservato al giudice di merito e, quindi, precluso alla Corte di Cassazione, giudice di sola legittimità.

In conclusione, la sussistenza di un fenomeno mobbizzante non può essere desunta dalla sola illegittimità dei provvedimenti disciplinari adottati nei confronti di un lavoratore.

È necessario, invece, dimostrare che le condotte del datore di lavoro o dei colleghi, prescindendo dalle concrete modalità attraverso cui tali condotte si manifestano, che hanno determinato nella vittima danni di natura psichica o fisica, siano, oltreché protratte nel tempo, di carattere vessatorio e motivate da un intento persecutorio.

Elementi, questi, che devono essere necessariamente dimostrati dal lavoratore e, senza che, in quest’ambito abbiano spazio presunzioni legate all’illegittimità dei provvedimenti disciplinari adottati dal datore di lavoro.

Nel caso di specie, invece, ferma restando l’illegittimità di alcune sanzioni irrogate alla ricorrente, non è stata fornita prova in merito all’intento persecutorio che avrebbe giustificato la loro adozione.

Gli avvocati dello Studio Legale Dedoni sono a disposione per ogni chiarimento.

Dott. Andrea Matta  mail: andrea.matta@studiolegalededoni.it

Dopo aver conseguito la maturità classica, si è laureato in giurisprudenza presso l’Università degli studi di Cagliari nel giugno 2020 con tesi in diritto regionale dal titolo “La competenza delle Regioni in materia di “lavori pubblici di interesse regionale. Differenziazione e prospettive future”. Nel corso del suo percorso di studi ha approfondito gli studi diritto costituzionale e amministrativo, nonché in materia di diritto del lavoro. Dal luglio 2020 collabora con lo Studio legale Dedoni, dove svolge la pratica forense.