L’avvocato che presta la sua attività presso uno studio professionale in maniera esclusiva e continuativa non è un lavoratore subordinato.

La vicenda

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 28274/2024, ha rigettato il ricorso di un avvocatessa che ha richiesto il riconoscimento della natura subordinata del suo rapporto professionale invocando l’applicazione dell’articolo 2094 del Codice Civile: “È prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”.

L’avvocatessa affermava di aver svolto, di fatto per tredici anni, all’interno di uno studio legale associato, attività professionale in via continuativa ed esclusiva ed aveva già chiesto, prima al Tribunale poi alla Corte d’Appello, l’accertamento della natura subordinata del suo rapporto di lavoro, con conseguente declaratoria di nullità del licenziamento intimato e relativa reintegra sul posto di lavoro, oltre al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale per violazione dell’art. 2087 c.c., per il quale “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

Aveva anche richiesto la condanna al risarcimento dei danni punitivi per discriminazione di genere e, in caso di mancato riconoscimento della natura subordinata del rapporto di lavoro, i danni per l’abuso di posizione dominante integratosi con l’ingiustificata interruzione del rapporto professionale in regime di mono committenza e senza alcun preavviso.

Sia il Tribunale, nel primo grado di giudizio, che la Corte d’Appello, in secondo grado, avevano ritenuto che si trattasse, in realtà, di una collaborazione pienamente rientrante nell’ambito del lavoro autonomo, sussistendone tutti i presupposti ed avevano rigettato la domanda.

La Corte d’Appello aveva altresì ritenuto irrilevanti, nonché manifestamente infondate le questioni di costituzionalità sollevate in relazione all’art. 3 del R.D.L. n. 1578 del 1933, che prevede, tra l’altro, l’incompatibilità della professione di avvocato con con ogni altro impiego retribuito, anche se consistente nella prestazione di opera di assistenza o consulenza legale”, e dell’art. 18, comma 1, lett. d) della legge 31/12/2012 n. 247 (legge professionale forense), il quale prevede la incompatibilità della professione forense con “… … … qualsiasi attività di lavoro subordinato anche se con orario di lavoro limitato”.

Erano state ritenute irrilevanti anche le questioni di costituzionalità relative agli articoli 61, comma 1 e 69, comma 1 del d.lgs. 276/2003 e dell’art. 2, comma 2 d.lgs. n. 81/2015 di cui al paragrafo precedente nelle parti in cui escludono il loro ambito di applicazione alle professioni intellettuali per le quali è prevista l’iscrizione in appositi albi, stante la assoluta incompatibilità della professione forense con il regime della subordinazione prevista dalla legge professionale forense.

La decisione della Corte di Cassazione.

La Corte di Cassazione ha ribadito, in prima battuta, che l’attività svolta dall’avvocatessa poteva ben inquadrarsi nell’ambito del lavoro autonomo, ritenendo che “… … … non risultano significativi i criteri distintivi costituiti dall’esercizio di un potere direttivo e disciplinare e che neppure possono considerarsi sintomatici del vincolo della subordinazione elementi come la fissazione di un orario per lo svolgimento della prestazione o eventuali controlli sull’adempimento della stessa se non si traducono nell’espressione del potere conformativo sul contenuto della prestazione”.

I Giudici hanno escluso che esistesse una ingerenza sul contenuto professionale dell’attività dell’avvocatessa ma che invece la medesima fosse assoggettata ad alcune regole, necessarie al coordinamento della sua attività professionale all’interno dello studio legale, come peraltro avveniva per tutti i professionisti dello studio, soci e non, ma senza un elemento di sovra ordinazione tra professionisti associati e professionisti non associati, essendo irrilevante il fatto che la predisposizione del regolamento e degli altri documenti facesse capo esclusivamente ai soci.

L’avvocatessa aveva sempre svolto la sua attività in modo libero, autonomo e indipendente, tanto è vero che “… … … assumeva iniziative personali ed esprimeva proprie considerazioni sulle questioni trattate (…), era interpellata personalmente, e a volte anche esclusivamente, sia dai clienti e sia dai procuratori delle controparti (…), i pareri trasmessi ai colleghi erano sottoscritti unicamente dalla predetta”

Solo lo studio intratteneva i rapporti contrattuali con i clienti ed emetteva le fatture, non potendo nessun professionista, associato e non, avere dei clienti propri, allo scopo di evitare eventuali conflitti di interessi con lo studio associato.

Per la Suprema Corte, tali regole organizzative costituiscono “… … … un sistema organizzato all’interno del quale il singolo avvocato decide di prestare la propria attività professionale accettando alcune limitazioni in cambio di altrettante agevolazioni e prerogative”.

La prassi di accedere ai locali dello studio tramite badge e la compilazione dei “time sheet” da parte di tutti i professionisti, soci o meno, rispondeva a mere esigenze di natura contabile e che non nascondevano alcuna forma occulta di controllo sull’orario di lavoro, anzi, in assenza di un orario di lavoro da rispettare le ore erano quelle indicate dal professionista senza alcuna verifica da parte dei colleghi sull’effettività di quanto dichiarato, a dimostrazione del carattere autonomo della prestazione.

Così anche la disposizione del regolamento in punto di ferie non prevedeva alcuna autorizzazione del piano ferie di ciascun professionista.

Circa l’erogazione di un compenso fisso, La Corte di Cassazione rilevava che il Tribunale aveva correttamente accertato che tutti i professionisti, anche non soci, partecipavano a quanto ricavato dalle pratiche relative ai clienti da ciascuno procurati, aspetto proprio della libera professione.

La Corte ha escluso che la fissazione di scadenze fosse indice di subordinazione, essendo anche questo un carattere insito nella professione forense: le tempistiche di volta in volta indicate si riferivano esclusivamente alla necessità di rispettare le tempistiche dei clienti.

I Principi di diritto

L’autonomia e l’indipendenza dell’avvocato

La Suprema Corte ha ribadito il principio di diritto, già stabilito dalla Sentenza della Corte Costituzionale n. 18/2022, circa l’incompatibilità della professione forense con qualsiasi attività di lavoro subordinato che “… … … è alla base della irrinunciabilità delle garanzie di autonomia e indipendenza dell’avvocato, a tutela sia del corretto esercizio della professione nei confronti del cliente sia del ruolo al medesimo spettante per la tutela dei diritti fondamentali e, in ultima analisi, per la garanzia dello stato di diritto nel suo complesso”.

Ha ritenuto infondata la questione di costituzionalità riguardante l’inapplicabilità dell’estensione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato ai rapporti di collaborazione coordinata le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente, alle collaborazioni prestate nell’esercizio di professioni intellettuali per cui è necessaria l’iscrizione ad appositi albi, perché “… … … l’opzione legislativa, di escludere a tale beneficio le collaborazioni prestate nell’esercizio di professioni intellettuali per cui è necessaria l’iscrizione in appositi albi professionali, non appare manifestamente irragionevole in quanto fondata sul presupposto, assolutamente plausibile, del possesso da parte del professionista di un potere contrattuale che lo rende immune dalle pratiche elusive dello sfruttamento cui il legislatore ha voluto porre rimedio”.

Detta inapplicabilità, secondo la Corte, non lede nemmeno il principio di uguaglianza, vista la diversità delle professioni intellettuali facenti parte di un ordine professionale rispetto a quelle prive di tale protezione.

Gli avvocati dello Studio Dedoni sono a disposizione per l’analisi e la consulenza in merito a ciascuna singola problematica.

Dopo aver conseguito la maturità classica, si è laureata in giurisprudenza presso l’Università degli studi di Cagliari nel settembre del 2018 con tesi in diritto privato della Pubblica Amministrazione “La responsabilità precontrattuale della Pubblica Amministrazione”.
Da gennaio 2022 ha iniziato a collaborare con lo studio legale Dedoni, ove sta approfondendo le sue conoscenze in materia di Diritto Civile e di Diritto del Lavoro.