Paura di tornare al lavoro: il lavoratore non perde il diritto alla reintegrazione

La Sentenza n.9653/2021 della Cassazione Sez. Lavoro 

Questa la vicenda: il lavoratore, difeso dallo Studio Legale Dedoni in tutti i gradi di giudizio, era stato licenziato per giustificato motivo oggettivo connesso a una contrazione del fatturato aziendale ed aveva impugnato il licenziamento.

Durante un’udienza il Giudice aveva richiesto al lavoratore di confermare  la sua volontà di essere reintegrato nel posto di lavoro ma lui aveva risposto di avere paura di riprendere l’attività lavorativa perché temeva di essere oggetto di comportamenti ritorsivi.

Diritto alla reintegrazione: la richiesta del datore di lavoro

Il datore di lavoro aveva allora eccepito che questa dichiarazione era una vera e propria rinuncia e aveva richiesto al Giudice di considerare estinto il diritto del lavoratore alla reintegrazione ma sia il Tribunale che la Corte d’Appello non accoglievano questa domanda e pronunciavano il diritto alla reintegrazione in favore del lavoratore.

L’azienda adiva così la Corte di Cassazione lamentando che nei precedenti gradi di giudizio non si fosse tenuto debitamente conto della dichiarazione del lavoratore ai fini sia della pronuncia dell’ordine di reintegrazione che della quantificazione del risarcimento del danno.

Licenziamento illegittimo: il diritto alla Reintegrazione e al Risarcimento del danno

Nei licenziamenti assistiti dalla tutela reintegratoria forte (prevista, a seconda del momento in cui è intervenuto il licenziamento e dalle dimensioni dell’azienda, dall’art. 18 L. n. 300/1970, nella formulazione precedente o successiva alla L. n. 92/2012 Legge Fornero, o nelle ipotesi di cui al d.lgs. n. 23/2015 Jobs Act), al lavoratore spetta la reintegrazione nel posto di lavoro e il risarcimento del danno parametrato all’ultima retribuzione per il periodo intercorrente tra la data del licenziamento all’effettiva reintegrazione.

Il risarcimento del danno deve essere corrisposto al netto di quanto percepito dopo il licenziamento dal lavoratore per altre attività lavorative ovvero di quanto avrebbe potuto percepire se si fosse attivato per la ricerca di un’altra occupazione con la normale diligenza del buon padre di famiglia.

E’ poi riconosciuto al lavoratore, in luogo della reintegrazione, la possibilità di scegliere un’indennità sostitutiva pari a 15 mensilità, che ha l’effetto di estinguere sia il rapporto di lavoro che l’obbligo risarcitorio. Detta scelta deve essere effettuata entro il termine di 30 giorni dalla sentenza che ordina la reintegrazione o dall’invito del datore di lavoro a riprendere l’attività lavorativa.

Nella prassi accadeva ed accade che il lavoratore, nell’attesa della definizione del giudizio, non cerchi altra attività lavorativa oppure, a fronte della chiamata al lavoro da parte del datore di lavoro, rifiuti di riprendere servizio.

Il rifiuto del lavoratore a ritornare al lavoro: viene meno il diritto al risarcimento danno  

La Giurisprudenza di legittimità si è a lungo interrogata sulle conseguenze di detti comportamenti con riferimento all’eventuale ordine di reintegrazione e alla liquidazione del risarcimento del danno conseguenti ad un licenziamento illegittimo.

Il rifiuto ingiustificato alla ripresa dell’attività lavorativa aveva e ha, quale conseguenza immediata, quella di incidere sulla quantificazione dell’indennità conseguente alla pronuncia di illegittimità del licenziamento, in quanto, trattandosi di un risarcimento, il danno derivante dal licenziamento ingiusto viene meno allorquando il lavoratore dichiara di non voler tornare al lavoro, proprio perché il danno risarcito è quello della perdita delle retribuzioni che si sarebbero percepite se il rapporto di lavoro fosse normalmente proseguito (cfr. ex multis Cass. Civ. n. 699/2013).

In tal senso il diritto al risarcimento del danno conseguente al licenziamento illegittimo non può essere esteso al periodo successivo al rifiuto non motivato da parte del lavoratore di ritornare a lavorare a seguito di invito formale da parte del datore di lavoro.

Il rifiuto del lavoratore a ritornare al lavoro ed il mancato esercizio del diritto di opzione: non viene meno il diritto alla reintegrazione se non è ancora stata pronunciata la Sentenza 

Il rifiuto del lavoratore alla ripresa dell’attività lavorativa con riferimento al diritto alla reintegrazione, per avere l’effetto di estinguere il suo diritto deve essere espresso in maniera chiara ed inequivocabile e deve essere pronunciato in un momento successivo all’ordine di reintegrazione pronunciato con la Sentenza.

Infatti solo a seguito della Sentenza il lavoratore matura il diritto alla reintegrazione e solo dopo averlo maturato può rinunciarvi.

Il legislatore ha però precisato che il comportamento del dipendente che omette di riprendere l’attività lavorativa ha l’effetto estintivo dell’ordine di reintegrazione soltanto quando, dopo l’emanazione della Sentenza che ordina la reintegrazione, il datore di lavoro formalizzi l’invito alla ripresa dell’attività lavorativa e il dipendente rimanga inerte entro i 30 giorni successivi.

Vi è però un caso in cui il rifiuto del lavoratore ha valore estintivo del diritto alla reintegrazione anche prima della Sentenza e si verifica quando il lavoratore esercita il suo diritto di opzione scegliendo di ottenere una indennità risarcitoria di 15 mensilità in sostituzione della reintegrazione.

L’esercizio di detta facoltà, che può essere anche antecedente all’ordine di reintegrazione, ha il potere di estinguere il rapporto di lavoro e pertanto qualora il lavoratore eserciti detto diritto di opzione, anche prima dell’emanazione della sentenza, perderà il diritto alla reintegrazione (cfr. Cass Civ n. 5759/2019).

Il principio di diritto contenuto nella Sentenza n. 9653/2021

La Corte di Cassazione, con la Sentenza in commento, ha ribadito gli orientamenti sopra richiamati affermando che non può ritenersi “desumibile da una mera dichiarazione la volontà del lavoratore di rinuncia alla tutela reale ex art. 18 L. n. 300/1970, richiedendo la norma medesima la formalizzazione di quella volontà accompagnata dell’attribuzione di un’opzione alternativa data dalla facoltà di richiedere la relativa indennità sostitutiva. Il ricorso va dunque dichiarato inammissibile”.

Gli avvocati dello Studio Dedoni sono a disposizione per ogni chiarimento.

Avv. Ivano Veroni  mail: ivano.veroni@studiolegalededoni.it

L’avvocato Ivano Veroni collabora con lo studio Dedoni dall’anno 2011.
Durante l’esercizio della professione, l’Avvocato Veroni ha maturato specifiche competenze nel settore del Diritto del Lavoro e del Diritto Amministrativo.
E’ docente di diritto del lavoro per l’ANCI Sardegna e per l’IFEL.
Nell’anno 2022 ha ricoperto il ruolo di componente della Sottocommissione per la formazione in diritto del lavoro nel Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Cagliari ed è relatore in materia di diritto del lavoro nei convegni organizzati dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Cagliari.