La tutela reintegratoria si applica anche ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo.

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Con due sentenze depositate il 16 luglio scorso, la n. 128/2024 e la n. 129/2024, la Corte Costituzionale ha proseguito la sua opera di “demolizione” del Jobs Act cancellando pezzi importanti della riforma nella parte in cui, eliminando di fatto l’art. 18 per i lavoratori assunti dopo il 15 marzo 2015, aveva limitato le tutele applicabili ai licenziamenti.

Con la sentenza n. 128/2024, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del D.Lgs. 4 marzo 2015 n. 23, dove non prevede che la tutela reintegratoria si applichi anche nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento, a prescindere da ogni valutazione circa la possibilità del “repêchage”, cioè la possibilità dell’utile ricollocamento del lavoratore all’interno dell’azienda
La Corte ha ritenuto la sola tutela indennitaria disallineata rispetto a quanto previsto per i licenziamenti disciplinari.

Con la seconda sentenza, la n. 129/2024, la Corte, pur ritenendo infondata la questione di costituzionalità di cui all’art. 3, comma 2, del D.Lgs. 23/2015 che prevede la sola tutela risarcitoria per il caso di licenziamento disciplinare fondato su un fatto sussistente ma punito dal CCNL con una sanzione conservativa, ha fornito una interpretazione costituzionalmente orientata conforme all’art. 39 Cost.,ritenendo doveroso leggere la norma nel senso che il riferimento alla proporzionalità del licenziamento non ricomprende anche quelle ipotesi in cui il fatto contestato sia in radice inidoneo, per espressa pattuizione contrattuale, a giustificare il licenziamento, ipotesi che vanno invece equiparate a quelle della “insussistenza del fatto materiale”.

La Sentenza n. 128/2024 della corte costituzionale.        
Scatta la reintegra se non sussiste il fatto materiale posto a base del licenziamento.

Con la sentenza n. 128/2024 la Corte Costituzionale ha ritenuto fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Ravenna che aveva censurato la disciplina dettata dal d.lgs. n. 23 del 2015, art. 3, comma 2, per il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo laddove escludeva la tutela reintegratoria nell’ipotesi in cui il giudice accerti l’insussistenza del fatto allegato dal datore di lavoro, a differenza di quanto previsto per il licenziamento disciplinare fondato su di un fatto contestato insussistente.

Nei casi di licenziamento disciplinare, infatti, l’accertamento in giudizio della insussistenza del fatto materiale, cioè la condotta del lavoratore considerata disciplinarmente rilevante, posto alla base della sanzione espulsiva, dà luogo alla tutela reintegratoria.         
Al contrario, nelle ipotesi di licenziamento c.d. “economico”, cioè per giustificato motivo oggettivo, il D.lgs. 23/2015 prevedeva la sola tutela risarcitoria anche se nel corso del giudizio veniva accertato che il motivo allegato dal datore di lavoro era falso o comunque insussistente.

Per fare un esempio pratico, possiamo pensare al caso in cui il datore di lavoro licenzi un proprio dipendente adducendo quale motivo la necessità di sopprimere la sua posizione lavorativa per necessità organizzative, normalmente legate ad una situazione di difficoltà economica.         
Prima della sentenza 128/2024 della Corte Costituzionale, se il giudice accertava che il fatto materiale utilizzato come “giustificato motivo” dall’azienda, cioè nel nostro caso soppressione del posto di lavoro, in realtà era insussistente, e cioè non era vero, il lavoratore licenziato si vedeva riconosciuta la sola indennità risarcitoria ma non poteva aspirare ad essere reintegrato.

La Corte Costituzionale, utilizzando quali parametri gli artt. 3, 4 e 35 della Costituzione, ha ritenuto che la sola indennità risarcitoria sia disallineata rispetto alla tutela garantita nel caso di licenziamenti disciplinari quando il fatto materiale sia insussistente, posto che il presupposto, cioè l’accertamento dell’insussistenza del fatto, è lo stesso.

Sotto questo profilo ha affermato che “La distinzione di disciplina tra il caso del licenziamento per motivo soggettivo e per motivo oggettivo, in relazione all’ipotesi in cui per entrambi il giudice ne accerti la giustificazione su fatti insussistenti, appare ingiustamente discriminatoria in quanto l’accertata insussistenza di uno degli elementi che ne compongono il fatto costitutivo li renderebbe due fenomeni identici o, se non altro, assolutamente omogenei.

Nella pronuncia i Giudici rilevano che, seppure la “ragione d’impresa” posta a fondamento del giustificato motivo oggettivo di licenziamento non risulti sindacabile nel merito, il principio della necessaria causalità del recesso datoriale esige che il “fatto materiale” allegato dal datore di lavoro sia “sussistente”.

Con la conseguenza che la disposizione censurata, ritenendo irrilevante la radicale inesistenza del fatto materiale, determina un difetto di sistematicità che rende irragionevole la differenziazione rispetto alla parallela ipotesi del licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo soggettivo.

Inoltre, la Corte Costituzionale rinviene in questa norma una chiara violazione dell’art. 3 della Costituzione, non solo sotto il profilo della disuguaglianza ingiustificata di trattamento tra il motivo soggettivo e il motivo oggettivo, in presenza degli stessi presupposti di vizio.  
Ma anche perché la disciplina fa dipendere “le conseguenze sanzionatorie e di tutela per un fatto illegittimo e illecito dalla mera qualificazione giuridica utilizzata da una delle due parti del rapporto, concedendo al datore di lavoro la possibilità di impedire la reintegrazione (altrimenti dovuta) semplicemente qualificando, in un certo modo piuttosto che in un altro, un motivo di licenziamento inesistente, e senza, al contrario, dare rilievo alla realtà quale risultante dagli accertamenti processuali compiuti dal giudice da cui dovrebbe derivare la determinazione della tutela spettante

La discrezionalità del legislatore nell’individuare le conseguenze dell’illegittimità del licenziamento non si estende, e non si può estendere, fino a consentire di rimettere questa alternativa ad una scelta del datore di lavoro che, intimando un licenziamento fondato su un “fatto insussistente”, lo qualifichi come licenziamento per giustificato motivo oggettivo piuttosto che come licenziamento disciplinare.

La violazione dell’obbligo di repechage non dà diritto alla reintegrazione.

Con la sentenza n. 128/2024 con riferimento ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, la Corte Costituzionale ha anche precisato che la mera violazione dell’obbligo di repêchage, nell’ambito di casi in cui il fatto materiale allegato come “ragione di impresa” viene accertato come realmente esistente, dà luogo alla tutela risarcitoria di cui al comma 1 dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015 e la previsione non produce alcun vizio di illegittimità costituzionale.

Quindi, se il fatto materiale sussiste ma non giustifica il licenziamento, in quanto viene accertato che il dipendente poteva essere utilmente ricollocato in azienda, il lavoratore avrà diritto alla sola tutela risarcitoria.

La Corte Costituzionale ha infatti ritenuto che così come nei licenziamenti disciplinari la valutazione di proporzionalità tra la colpa del lavoratore e la sanzione espulsiva è stata tenuta fuori dalla diversa ipotesi di licenziamento disciplinare fondato su fatto inesistente, allo stesso modo la possibilità di un utile ricollocamento del lavoratore licenziato per ragioni di impresa realmente esistenti deve essere tenuta separata dalla diversa ipotesi di fatto materiale insussistente.

Ne consegue che la dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione censurata è limitata alla sola ipotesi di radicale inesistenza del fatto materiale addotto dal datore di lavoro a fondamento del giustificato motivo oggettivo.

La Corte Costituzionale estende la tutela reintegratoria nei licenziamenti per giusta causa. La sentenza 129/2024 della Corte Costituzionale. Se il CCNL punisce il fatto posto a base del licenziamento con una sanzione conservativa scatta la reintegra.

Nella sentenza n. 129/2024 la Corte Costituzionale ha esaminato la questione di costituzionalità sollevata dal Tribunale di Catania che aveva censurato il mancato riconoscimento della tutela reintegratoria di cui all’art. 3, comma 2, del D.lgs. n. 23/2015 nell’ipotesi di licenziamento disciplinare basato su un fatto contestato che si riveli “sussistente” ma per il quale sia la stessa contrattazione collettiva a prevedere una sanzione conservativa.

Secondo il Giudice del Tribunale di Catania, chiamato ad applicare la norma, la disposizione, senza un plausibile motivo, consentirebbe al datore di lavoro di estromettere un dipendente che abbia commesso infrazioni di modesta entità che, secondo le valutazioni delle parti sociali e del CCNL di categoria, sarebbero inidonee a compromettere il vincolo fiduciario, tanto da giustificare al più l’irrogazione di sanzioni conservative, con un atto di recesso che risulterebbe, comunque, arbitrario e irragionevole, perché fondato su fatti obiettivamente inidonei a giustificare l’estinzione del rapporto.

Prima di esaminare il merito della questione, la Corte richiama la disciplina legislativa nei suoi innumerevoli mutamenti, ricordando che la linea di demarcazione tra l’area della tutela reintegratoria e quella della tutela solo compensativa è stata modificata dal d.lgs. n. 23 del 2015, che ha introdotto un diverso regime di tutela in caso di illegittimità del licenziamento per i lavoratori assunti dopo il 15 marzo 2015 con il contratto di lavoro a tutele crescenti.

Per i “nuovi assunti” la tutela reintegratoria è stata ulteriormente ridimensionata nel caso di licenziamento per mancanza di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo.
L’ambito di applicazione della tutela risarcitoria è riservata all’ipotesi dell’insussistenza del fatto materiale contestato, con espressa esclusione dei casi in cui l’illegittimità del licenziamento risieda esclusivamente nel difetto di proporzionalità della misura espulsiva adottata dal datore di lavoro rispetto all’effettiva gravità della condotta posta in essere dal dipendente.

La Corte Costituzionale ha ritenuto infondata la questione di costituzionalità e legittima la previsione del D.lgs. n. 23/2015, tuttavia ritiene necessario che di tale norma venga data una interpretazione adeguatrice rispetto all’art. 39 Cost.

Sotto questo profilo, pur ritenendo costituzionalmente legittima la norma, la Corte ha affermato che la disposizione censurata deve essere letta nel senso che “il riferimento alla proporzionalità del licenziamento, il cui difetto è attratto all’ambito della tutela solo indennitaria del licenziamento illegittimo, ha sì una portata ampia, tale da comprendere anche le ipotesi in cui la contrattazione collettiva vi faccia riferimento, come clausola generale ed elastica (…) Essa non concerne, però, anche le particolari ipotesi di regolamentazione pattizia alla stregua delle quali specifiche e nominate inadempienze del lavoratore sono passibili solo di sanzioni conservative”.

In questi casi, infatti, il fatto contestato, per il quale il CCNL ha previsto espressamente una sanzione conservativa, è in radice inidoneo, per espressa pattuizione, a giustificare il licenziamento.
Non vi è un ‟fatto materiale” che possa essere posto a fondamento del licenziamento, il quale, se intimato, risulta essere in violazione della prescrizione della contrattazione collettiva, con la conseguenza che la fattispecie va equiparata a quella, prevista dalla disposizione censurata, dell’«insussistenza del fatto materiale», con conseguente applicabilità della tutela reintegratoria attenuata.

La mancata previsione della reintegra quando il fatto contestato sia punito con una sanzione solo conservativa dalla contrattazione collettiva andrebbe ad incrinare il tradizionale ruolo di quest’ultima nella disciplina del rapporto.

All’esito di queste due pronunce, secondo la Corte Costituzionale rimane “la simmetria tra licenziamento disciplinare e licenziamento per ragione di impresa, tracciata nella sentenza n. 128 del 2024 sulla linea del “fatto materiale insussistente”, lungo la quale c’è il riallineamento delle due fattispecie di licenziamento, anche se il licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo per un fatto assai lieve, tipizzato dalla contrattazione collettiva con previsione specifica, si collochi al di qua di quella linea e ricada anch’esso nella tutela reintegratoria attenuata”.

Gli avvocati dello Studio Dedoni sono a disposizione dei loro clienti per la soluzione delle problematiche giuridiche in materia di licenziamenti.

Dopo aver conseguito la maturità classica, nel settembre 2022 si è laureata in Giurisprudenza presso l’Università degli studi di Cagliari riportando la votazione di 110/110 e lode, con una tesi in diritto del
lavoro dal titolo “L’indebito retributivo nel pubblico impiego privatizzato”.

Nel corso degli studi ha approfondito le proprie conoscenze, in particolare, in materia di diritto del lavoro, pubblico e privato, e
in materia di previdenza sociale. Da novembre 2022 collabora con lo Studio Legale Dedoni, dove svolge la pratica forense.