Il salario minimo demandato alla valutazione del Giudice

La Cassazione conferma il potere del Giudice di disapplicare il contratto collettivo nazionale anche se  firmato dai sindacati maggiormente rappresentativi.

Pochi giorni orsono avevo scritto sul dibattito nato in Giurisprudenza circa il potere del Giudice di dichiarare l’illegittimità delle norme del CCNL in materia di minimi tabellari retributivi (“La discrezionalità del datore di lavoro nell’applicazione dei contratti collettivi di lavoro” del 29 settembre 2023).

In tale dibattito interviene, con la Sentenza n.7221/2023 del 2 ottobre 2023, la Corte di Cassazione che sembra porre un punto fermo e definitivo sulla questione.

Il salario minimo demandato alla valutazione del Giudice: la vicenda

Un lavoratore di un istituto di vigilanza privata aveva richiesto al Giudice l’adeguamento delle retribuzioni percepite e parametrate secondo il CCNL per i dipendenti delle imprese di vigilanza privata sottoscritto dai sindacati maggiormente rappresentativi, lamentando la non conformità ai parametri dell’art. 36 della Costituzione del trattamento retributivo applicato secondo il contratto collettivo.

In primo grado la domanda era stata accolta ed il datore di lavoro condannato a corrispondere una retribuzione parametrata ad un diverso contratto collettivo, quello dei dipendenti di proprietari di immobili e fabbricati.

La Corte d’appello di Torino, in accoglimento del ricorso in appello presentato dal datore di lavoro, aveva riformato la sentenza di primo grado sulla base del fatto che il datore di lavoro aveva pacificamente applicato il CCNL per i dipendenti delle imprese di Vigilanza privata – servizi fiduciari, contratto collettivo di settore che era stato stipulato da organizzazioni sindacali dei lavoratori maggiormente rappresentative a livello nazionale.

La Corte d’appello di Torino affermava che andrebbero esclusi dalla valutazione di conformità ex art. 36 Costituzione quei rapporti di lavoro che sono regolati dai contratti collettivi propri del settore di operatività e sono siglati da organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale e che la retribuzione stabilita dalla norma collettiva acquista “una presunzione di adeguatezza ai principi di proporzionalità e sufficienza che investe le disposizioni economiche del contratto collettivo anche negli interni rapporti tra le singole retribuzioni”.

Le motivazioni della Cassazione: I parametri differenti da quelli della contrattazione collettiva

La contrattazione collettiva “inappagante”

La Sentenza della Corte d’appello di Torino è stata integralmente riformata con la Sentenza richiamata in apertura.

Secondo i Giudici della Cassazione il giudice gode di un’ampia discrezionalità nella determinazione della giusta retribuzione, ampia discrezionalità che gli consente di discostarsi dai minimi retributivi della contrattazione collettiva, servendosi di altri criteri di giudizio e parametri differenti o da quelli collettivi, con l’unico obbligo di darne puntuale e adeguata motivazione rispettosa dell’art. 36 Cost.

Questo significa che la “giusta retribuzione” nelle decisioni future anche dei Giudici del merito, non dovrà necessariamente essere parametrata a quella indicata in un contratto collettivo applicato in settori produttivi analoghi, ancorché diverso da quello applicato dal datore di lavoro, ma quella desumibile anche fonti esterne come l’indice Istat, statisticamente utilizzato per misurare la soglia di povertà o la soglia di reddito per accedere alla pensione di inabilità.

Nella realtà la Sentenza della Corte di cassazione non elenca tutti i possibili parametri alternativi ma si limita a richiamare alcuni istituti come per esempio, i dati Uniemens censiti dall’Inps per il salario medio, i valori dell’indennità Naspi, i trattamenti di integrazione salariale in presenza di riduzione o sospensione dell’attività e altre forme di sostegno al reddito, “anche secondo quanto suggerito dalla Direttiva Ue 2022/2041 del 2022 del 19 0ttobre 2022”.

Una delle criticità più evidenti che viene affrontata nella motivazione, uno dei nodi oggettivamente più difficili da sciogliere, consistente nel fatto che la retribuzione effettivamente corrisposta al lavoratore sia conforme a quella stabilita da un CCNL siglato dai sindacati maggiormente rappresentativi.

Non si parla infatti di contratti collettivi “pirata” ma di contratti collettivi sottoscritti tra gli altri, dalle tre sigle sindacali storiche, che hanno come mandato istituzionale quello di stipulare contratti collettivi a tutela dei lavoratori. Secondo la Cassazione nel nostro ordinamento una legge sul “salario legale” non può realizzarsi attraverso un rinvio in bianco alla contrattazione collettiva.

“Non potendo il giudice abdicare a questa funzione di controllo, si ripropone semmai il problema dell’orientamento della sua discrezionalità motivata, in relazione all’applicazione di una norma costituzionale a contenuto generale direttamente applicabile nei rapporti inter partes ed inoltre il tema della ricerca di un quid pluris congruo e funzionale allo scopo, rispetto al quantum parametrico costituito dalla sola contrattazione, che si riveli in concreto inappagante”.

Le nuove pronunce della Corte di Cassazione e del Tribunale di Bari

La linea giurisprudenziale appena tracciata è stata confermata dalla Sentenza della Corte di Cassazione n.28320 del 10 ottobre 2023 e, nel merito, dalla recentissima Sentenza n.2720 del 13 ottobre 2023 del Tribunale di Bari.

La Sentenza della Corte di Cassazione

Il caso di specie affrontato nella Sentenza n.28320/2023 riguardava alcuni dipendenti di una spa con mansioni di portiere, addetto alla guardiania, che svolgevano la loro prestazione lavorativa prevalentemente nel turno notturno, inquadrati nel livello D ccnl per i dipendenti di istituti ed imprese di vigilanza privata – servizi fiduciari.

 La corte di appello dichiarava nullo l’art . 23 del ccnl servizi fiduciari riguardante il minimo salariale. 

La Società datore di lavoro ricorreva in cassazione affermando  il diritto  di  retribuire  i dipendenti secondo quanto  previsto dal CCNL sottoscritto dalle organizzazioni sindacali maggiormente  rappresentative (CGIL e CISL) e coerente con il settore merceologico in cui opera,  ossia quello dei servizi di portierato / reception svolti per conto di terzi. 

Le motivazioni della Sentenza, richiamano, in larga parte, la Sentenza commentata in apertura. Si ribadisce che il giudice è chiamato  in causa in ultima istanza  in quanto il riferimento al salario di cui al CCNL integra solo una  presunzione relativa di conformità alla  Costituzione.

Nella sentenza non manca un monito alla parte politica laddove si sottolinea la “carenza a tutt’oggi di altri meccanismi tali da garantire in concreto ad ogni individuo che lavora nel nostro Paese il diritto ad un salario minimo giusto o altrimenti una soddisfazione  automatica o un controllo documentale della corretta erogazione del salario costituzionale,  all’infuori di una controversia processuale (o di un accertamento ispettivo)”.

La Corte di Cassazione ha anche affermato che la norma del CCNL dei servizi fiduciari che esclude il pagamento delle ore straordinarie dalla retribuzione normale durante le ferie non è legittima perché si si pone in contrasto con i parametri di sufficienza e proporzionalità stabiliti dall’articolo 36 della Costituzione.

La Sentenza del tribunale di Bari

Il Giudice del Tribunale di Bari con la Sentenza del 13 ottobre 2023 riafferma il principio indicato dalla Cassazione che per comodità chiamerò della contrattazione collettiva “inappagante” per il quale il trattamento retributivo determinato dalla contrattazione collettiva, pur dotata di ogni crisma di rappresentatività, può comunque risultare in concreto lesivo del principio di proporzionalità alla quantità e qualità del lavoro. Spetta sempre al giudice, in ultima battuta, l’opera di verifica della retribuzione minima adeguata ex art.36 Cost. con attribuzione di poteri talmente ampi che può fare altresì riferimento, all’occorrenza ad indicatori economici e statistici.

Il Giudice di Bari si sofferma sul panorama dei possibili indici da utilizzare per verificare l’adeguatezza della retribuzione rispetto all’art. 36 Cost. Il primo indice da prendere in considerazione è, in primo luogo, quello fissato per mansioni analoghe da altri CCNL di settori affini e, in secondo luogo, il tasso soglia di povertà assoluta.

Circa il primo indice citato il Giudice ricorda che, in ogni caso, la contrattazione collettiva opera comunque all’interno di quella generale presunzione di conformità alla Costituzione della retribuzione prevista dalle parti sociali da cui il giudice può discostarsi soltanto con grande cautela e con adeguata motivazione.

Quanto invece al tasso soglia di povertà assoluta, definito dall’l’ISTAT come “il valore monetario, a prezzi correnti, del paniere di beni e servizi considerati essenziali per ciascuna famiglia, definita in base all’età dei componenti, alla ripartizione geografica e alla tipologia del comune di residenza” il Giudice chiarisce che esso non identifica l’importo idoneo ad assicurare al lavoratore ed alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa secondo il dettato dell’art.36 della Costituzione, costituendo semplicemente una soglia al di sotto della quale si deve dubitare seriamente della sufficienza di una retribuzione a tempo pieno.

Si sofferma inoltre sugli altri possibili criteri che possono affiancarsi a questi due indici. Uno di questi è l’ammontare della retribuzione che concorre ad identificare l’“offerta congrua” di lavoro il cui rifiuto da parte dei titolari del reddito di cittadinanza si ripercuote negativamente sulla percezione di quest’ultimo.

Secondo il Giudice anche l’ammontare del reddito di cittadinanza costituisce un indice significativo. La scelta quantitativa compiuta dal legislatore nell’introdurre tale misura di politica attiva del lavoro e di contrasto alla povertà offre infatti un’indicazione di quale sia il reddito minimo necessario a sostenere le spese e essenziali e dunque concorre anch’esso a determinare la soglia al di sotto della quale la retribuzione deve ritenersi insufficiente alle esigenze di vita.

Il salario minimo demandato alla valutazione del Giudice: Il dibattito politico e il ruolo del CNEL

Il rischio della indeterminatezza della retribuzione e dell’aumento del contenzioso giudiziario

Come noto, a fronte della pressione esercitata dalle opposizioni che a gran voce hanno richiesto una legge che istituisca in Italia il salario minimo, il governo, ancor prima della linea tracciata dalla sentenza della Cassazione n.27711 del 2 ottobre 2023, aveva incaricato il CNEL di studiare un intervento condiviso di contrasto al lavoro povero e ai bassi salari. Il CNEL ha prodotto un documento che nega l’esistenza di minimi contrattuali collettivi inferiori all’equa retribuzione costituzionale, puntando l’attenzione sulla necessità di promuovere una contrattazione collettiva “di qualità”, capace di produrre salari attestati ben al di sopra del minimo costituzionale.

Di fatto si riconosce all’autonomia collettiva un ruolo di concreta determinazione della retribuzione equa ex art. 36 Cost. anche se resta sul tavolo un quesito irrisolto: perché accade che contratti stipulati da sindacati confederali fissino retribuzioni minime talmente basse da indurre i giudici a rompere la tradizionale riserva riconosciuta nei confronti dell’autonomia collettiva, riaffermando l’inesistenza di una riserva a favore di quest’ultima in materia salariale?

Appare evidente il cortocircuito che si viene a creare. Se da un lato infatti si chiede maggiore attenzione alla parte sindacale nell’esercizio del potere di contrattazione collettiva, invocando l’utilizzo di una contrattazione collettiva di qualità, dall’altro appare evidente la difficoltà del raggiungimento di tale risultato, perlomeno nei tempi brevi, tempi brevi che sono oggi necessari a causa della forte spinta inflazionistica.

Da parte sindacale infatti non si registra uno sforzo organizzativo e concettuale, che la situazione contingente imporrebbe, sul piano della contrattazione di qualità, né una reazione all’opera di demolizione iniziata dalla Giurisprudenza della “riserva naturale” da sempre alla stessa parte sindacale riconosciuta in ambito di contrattazione collettiva nella fissazione delle tabelle salariali. I motivi di tale inerzia sono forse da attribuirsi alla difficoltà delle organizzazioni sindacali, ancora strutturate con organigrammi desueti, di adeguarsi ai repentini cambiamenti del mercato del lavoro, ma anche alla storica mancanza di specifiche disposizioni di legge sulla rappresentatività sindacale, peraltro dagli stessi sindacati da sempre osteggiate, che non ha e non può avere efficacia erga omnes se non in via fattuale e relativamente a determinati settori produttivi. In tale contesto tutta l’area del cosiddetto “lavoro povero o debole”, in forte crescita, cioè quel lavoro che sfugge da qualsiasi contrattazione collettiva, resta di fatto privo di qualsiasi tutela.

Non possono non essere messe in evidenza le criticità alle quali intuitivamente potrà incorrere il mercato del lavoro ed il sistema produttivo. Certamente un aumento del contenzioso che fino ad oggi si è limitato al settore della vigilanza privata me che, inevitabilmente, sconfinerà in altri settori. Da un altro lato è  prevedibile la frammentazione delle decisioni circa il salario equo in considerazione della possibilità del Giudice di vagliare altri e differenti parametri diversi da quelli individuati dai contratti collettivi dei settori affini. Potrà quindi accadere che ogni Giudice monocratico, in ogni diverso Tribunale italiano, individuerà i parametri della retribuzione con le inevitabili influenze del contesto sociale ed economico e, sia consentito,  anche politico, della realtà nella quale vive. Le conseguenze di tali condizioni potrebbero produrre decisioni “a macchia di leopardo” con conseguente incertezza sulla “tenuta” della retribuzione erogata e situazioni di disparità sul territorio, in danno della libera concorrenza e della libertà di gestione dell’impresa.

Gli Avvocati dello Studio Dedoni sono pronti ad offrire consulenza ai clienti in materia del diritto del lavoro

L’Avvocato Andrea Dedoni, è nato a Carbonia il 30 Settembre 1964 ed è iscritto all’albo degli Avvocati della provincia di Cagliari dal 1997.
E’ il titolare dello studio legale Dedoni , coordina, organizza e supervisiona il lavoro di tutti i collaboratori dello studio .

Le competenze dell’Avvocato Dedoni sono il Diritto del Lavoro, il Diritto Civile ed il Diritto Fallimentare. Vanta un’esperienza trentennale nella gestione dei rapporti di lavoro e nel contenzioso nel lavoro: è socio dell’Associazione Giuslavoristi Italiani e dell’Associazione Giuslavoristi Sardi.