Il comportamento processuale connotato da mala fede o colpa grave.

La condanna ex art. 96, comma III c.p.c. e la lite temeraria.

Il Tribunale di Cagliari con la Sentenza n. 2000/2024 ha condannato la parte resistente, risultata soccombente nel procedimento, oltre alle spese di lite, “all’ulteriore pagamento, in favore dell’attrice, ai sensi dell’art. 96 III comma c.p.c. della somma, di € 1.620,00, oltre interessi della presente decisione e fino al saldo”.

La normativa di riferimento è, appunto, l’art. 96 c.p.c., rubricato “responsabilità aggravata”, che disciplina l’istituto della cosiddetta “lite temeraria”.

Tale norma dispone che “Se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni che liquida, anche d’ufficio, nella sentenza.

Il giudice che accerta l’inesistenza del diritto per cui è stato eseguito un provvedimento cautelare, o trascritta domanda giudiziale, o iscritta ipoteca giudiziale, oppure iniziata o compiuta l’esecuzione forzata, su istanza della parte danneggiata condanna al risarcimento dei danni l’attore o il creditore procedente, che ha agito senza la normale prudenza. La liquidazione dei danni è fatta a norma del comma precedente.

In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata.

Nei casi previsti dal primo, secondo e terzo comma, il giudice condanna altresì la parte al pagamento, in favore della cassa delle ammende, di una somma di denaro non inferiore ad euro 500 e non superiore ad euro 5.000”

La ratio (cioè lo scopo, la ragion d’essere) della norma, soprattutto del primo e del secondo comma, è quella di sanzionare la condotta scorretta, e quindi illecita, della parte che pur sapendo di essere nel torto, comunque agisce o resiste in giudizio con mala fede oppure della parte che, pur potendosi avvedere con la minima diligenza dell’infondatezza delle proprie ragioni, ugualmente agisce o resiste in giudizio (colpa grave).

La questione assume particolare rilievo, considerata la durata media dei processi civili in Italia.

Mentre i primi due commi sono volti, senz’altro, a risarcire la parte vincitrice danneggiata dal comportamento illecito della parte soccombente, il terzo comma, applicato dal Giudice nella sentenza in commento, si differenzia dalle prime due ipotesi di responsabilità aggravata in quanto il Giudice può, anche d’ufficio, e quindi anche senza una specifica istanza dell’altra parte, “condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”.

Il terzo comma è stato introdotto dalla legge n. 69 del 2009 e rappresenta una sanzione che appartiene alla categoria dei cosiddetti “punitive damages”, letteralmente “danni punitivi”, tipica degli ordinamenti giuridici dei paesi anglosassoni, chiamati ordinamenti di “common law”.
La ratio dell’istituto è quella di contrastare il fenomeno dell’abuso del processo e la sua peculiarità è quella di essere volta a punire il danneggiante e non a risarcire il danneggiato, il che rappresenta una novità nel nostro ordinamento, che fa parte degli ordinamenti giuridici chiamati di “civil law”.

Il comportamento processuale connotato da mala fede o colpa grave: I presupposti della condotta per la lite temeraria.

Mentre per i primi due commi dell’articolo 96 c.p.c. è necessaria per la condanna al risarcimento dei danni una “istanza della parte danneggiata, per il terzo comma il giudice può in ogni caso” condannare il soccombente “anche d’ufficio”al pagamento in favore dell’altra parte di una somma equitativamente determinata.

Ciò comporta una elevata discrezionalità del Giudice, tanto da porre dei dubbi giurisprudenziali sugli oggettivi presupposti applicativi dell’istituto di cui al terzo comma, posto che non viene esplicitata una precisa condotta materiale o psicologica del soccombente (stabilita invece dal primo comma), ma viene, invece, posta dal legislatore la possibilità per il Giudice di condannarlo “in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91”.

Parte della Giurisprudenza, addirittura, ritiene che non sia necessaria la mala fede o la colpa grave, ma che sia sufficiente anche la colpa lieve per poter applicare il terzo comma.

L’orientamento maggioritario, invece, dando priorità alla collocazione dell’istituto all’interno dell’art. 96 c.p.c., “responsabilità aggravata”, ritiene che siano comunque necessarie, alternativamente, la malafede o la colpa grave del soccombente.

Nel caso deciso dal Tribunale di Cagliari il Giudice ha sposato questo secondo orientamento, ritenendo sussistenti “rilevanti profili di colpa per avere resistito in giudizio, nonostante l’evidenza dell’inidoneità dell’immobile”, e ritenendo dunque che si trattasse, a tutti gli effetti, di lite temeraria.

Il caso concreto affrontato dal Tribunale di Cagliari.

Nel caso deciso dal Tribunale di Cagliari, la ricorrente, difesa dallo Studio legale Dedoni, chiedeva – e otteneva – la condanna della resistenteai sensi dell’art. 96 c.p.c. al risarcimento dei danni per lite temeraria, da liquidarsi in via equitativa dal Giudice”.

In breve, la ricorrente deduceva di aver presentato nell’anno 2012 una richiesta di subentro in un contratto di locazione di un immobile ad uso commerciale, sottoscrivendo contemporaneamente un piano di rientro per il pagamento della morosità maturata dal precedente conduttore per un importo di circa € 10.000,00 e provvedendo contestualmente a versare un acconto di circa € 4.000,00, dilazionando la restante somma in rate mensili, ma di non avere mai potuto prendere possesso dell’immobile in quanto, alla data stabilita per il primo ingresso, il locale veniva dichiarato inagibile.

La ricorrente chiedeva quindi la risoluzione del contratto.

Il locatore resisteva in giudizio, come si vedrà, con colpa grave, affermando che non fosse in realtà presente un certificato di inagibilità, che in realtà l’immobile fosse nella disponibilità della ricorrente fin dalla data di cessione del contratto e che la ricorrente fosse comunque a conoscenza delle condizioni dell’immobile.

Nel corso del processo le risultanze della prova testimoniale hanno fatto emergere la fondatezza delle ragioni della ricorrente e le reali condizioni di inagibilità dell’immobile, ben conosciute dal locatore fin dal principio, inducendo il Giudice ad accogliere anche la domanda della ricorrente di condanna ai sensi dell’art. 96 c.p.c., e applicare, nello specifico, il terzo comma.

Le conclusioni del Tribunale di Cagliari.

Il Giudice del Tribunale di Cagliari, nel richiamare la giurisprudenza, ha citato la Corte di Cassazione a Sezioni Unite (Sentenza n. 22405 del 13/09/2018), la quale ha ritenuto che “la condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c. è volta a salvaguardare finalità pubblicistiche, correlate all’esigenza di una sollecita ed efficace definizione dei giudizi, nonché interessi della parte vittoriosa ed a sanzionare la violazione dei doveri di lealtà e probità sanciti dall’art. 88 c.p.c., realizzata attraverso un vero e proprio abuso della “potestas agendi” con un’utilizzazione del potere di promuovere la lite, di per sé legittimo, per fini diversi da quelli ai quali esso è preordinato, con conseguente produzione di effetti pregiudizievoli per la controparte. Ne consegue che la condanna, al pagamento della somma equitativamente determinata, non richiede né la domanda di parte né la prova del danno, essendo tuttavia necessario l’accertamento, in capo alla parte soccombente, della mala fede (consapevolezza dell’infondatezza della domanda) o della colpa grave (per carenza dell’ordinaria diligenza volta all’acquisizione di detta consapevolezza), venendo in considerazione, a titolo esemplificativo, la pretestuosità dell’iniziativa giudiziaria per contrarietà al diritto vivente ed alla giurisprudenza consolidata, la manifesta inconsistenza giuridica delle censure in sede di gravame ovvero la palese e strumentale infondatezza dei motivi di impugnazione”.

Non vi può essere, pertanto, una applicazione oggettiva della condanna ai sensi del terzo comma, che non prescinde dalla sussistenza della malafede o quantomeno della colpa grave, e, nel caso deciso dal Tribunale di Cagliari, il Giudice ha ritenuto sussistente quest’ultima, ritenendo che “nel caso di specie la condotta processuale della parte opposta è apparsa connotata da rilevanti profili di colpa”, avendo quest’ultima resistito in giudizio nonostante la evidente fondatezza della domanda della ricorrente.

Il Giudice ha quindi accertato e dichiarato la risoluzione del contratto per “vizi della cosa locata, condannato parte resistente alla restituzione dell’importo oltre interessi legali dalla data prevista per l’inizio della locazione (anno 2012) e fino al saldo, nonché alla rifusione delle spese di lite e all’ulteriore pagamento in favore della ricorrente della somma di € 1.620,00 oltre interessi dalla decisione e fino al saldo ai sensi dell’art. 96, comma III c.p.c.

L’importo della somma è stato determinato dal Giudice “anche avuto riguardo alla durata del procedimento – circa 10 anni n.d.r. – nella misura di circa 1/3 delle spese di lite (comprensive delle spese generali)”, il Giudice ha infatti citato l’ordinanza n. 17902 del 2019 della Corte di Cassazione, la quale ha statuito che “In tema di responsabilità aggravata, la determinazione equitativa della somma dovuta dal soccombente alla controparte in caso di lite temeraria non può essere parametrata all’indennizzo di cui alla legge n. 89 del 2001 – il quale, ha natura risarcitoria ed essendo commisurato al solo ritardo della giustizia, non consente di valutare il comportamento processuale del soccombente alla luce del principio di lealtà e probità ex art. 88 c.p.c., laddove la funzione prevalente della condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c. è punitiva e sanzionatoria -, potendo essere calibrata su una frazione o un multiplo delle spese di lite con l’unico limite della ragionevolezza”, confermando ancora una volta la natura punitiva (piuttosto che risarcitoria) dell’istituto di cui al terzo comma, che si configura come una vera e propria sanzione.

Gli avvocati dello Studio Dedoni sono a disposizione per l’analisi e la consulenza in merito a ciascuna singola problematica.

Dopo aver conseguito la maturità classica, si è laureata in giurisprudenza presso l’Università degli studi di Cagliari nel settembre del 2018 con tesi in diritto privato della Pubblica Amministrazione “La responsabilità precontrattuale della Pubblica Amministrazione”.
Da gennaio 2022 ha iniziato a collaborare con lo studio legale Dedoni, ove sta approfondendo le sue conoscenze in materia di Diritto Civile e di Diritto del Lavoro.