La relazione dell’avvocato Ivano Veroni
E’ noto che, la Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 27711/2023, ha offerto un contributo fondamentale nel dibattito sul concetto di salario minimo e giusta retribuzione.
La Sentenza è particolarmente interessante proprio per il fatto che la questione è sorta nell’ambito di un appalto di servizi dove operava una Cooperativa come appaltatrice e che a tali lavoratori fosse applicato un CCNL sottoscritto dalle organizzazioni sindacali comparativamente rappresentative.
La Corte di Cassazione introduce un tema per certi versi diverso e ulteriore rispetto a quello che si era dibattuto in giurisprudenza e nelle aule parlamentari, ovvero il tema del salario equo che è cosa diversa dal salario minimo.
Salario minimo e salario equo. La Corte di Cassazione fa chiarezza.
Nell’iter motivazionale della citata sentenza, la Corte precisa la retribuzione è equa nel momento in cui consente al lavoratore di raggiungere il pieno sviluppo delle proprie aspirazioni materiali e, soprattutto, immateriali, non essendo sufficiente che la retribuzione garantisca i meri bisogni esistenziali.
La Corte si spinge ad affermare che “Nell’ambito dell’operazione di raffronto tra il salario di fatto e quello costituzionale il giudice è tenuto ad effettuare una valutazione coerente e funzionale allo scopo, rispettosa dei criteri giuridici della sufficienza e della proporzionalità, non potendo perciò assumere a riferimento un salario lordo (che si riferisce ad un importo interamente spendibile da un lavoratore) e confrontarlo con l’indice ISTAT di povertà (che ha riguardo invece alla capacità di acquisto immediata di determinati beni essenziali). In nessun caso la verifica della sufficienza della retribuzione in concreto corrisposta, anche attraverso il livello ISTAT di povertà assoluta, può esaurire l’oggetto dell’articolata valutazione demandata al giudice ex art. 36 Cost.”
Quindi il Giudice è chiamato, secondo la Corte, a verificare a ciò che effettivamente il lavoratore possa acquistare con il proprio salario, precisando che il reperimento dei beni meramente esistenziali (ovvero vestiario, cibo e alloggio) non è parametro sufficiente ai fini dell’art. 36 Cost. ma deve spingersi oltre.
Quanto oltre la Corte non lo dice e anzi precisa che si rientra nella discrezionalità quantunque motivata, e che il Giudice potrebbe spingersi ad affermare che la retribuzione già percepita sia equa o che, addirittura, sia equa anche una retribuzione inferiore, fermo il limite che se quella superiore sia stata stabilita per CCNL o per accordo individuale certamente non potrà essere sostituita da una retribuzione deteriore.
Ma i parametri di valutazione sono svariati, rappresentando l’indice ISTAT di povertà assoluta soltanto il punto di partenza e soglia minima a cui però non ci si può limitare a una mera attività di livellamento a tale indice.
E allora il Giudice può ricorrere ad altri contratti collettivi astrattamente applicabili per vicinanza di settore e materia, e, addirittura, si spinge ad affermare che può tenere conto delle dimensioni, della localizzazione dell’impresa, di specifiche situazioni locali o della qualità della prestazione offerta dal lavoratore.
Insomma, secondo la suprema Corte si tratta di costruire sul lavoratore, e mi spingo a dire, sul singolo lavoratore, una retribuzione “su misura”.
Salario equo in materia di appalti e nel codice dei contratti pubblici.
Questa Sentenza esprime un principio della portata dirompente rispetto a un tessuto normativo che, escluso l’art. 36 Cost., si è mosso, sia su suolo nazionale che europeo con ben altra attenzione e, se possiamo dire, titubanza.
Sotto il profilo del diritto interno, si può richiamare in mente l’art. 3 c. 1 L. n. 142/2001 che impone alle società cooperative di applicare ai soci lavoratori subordinati “un trattamento economico complessivo proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato e comunque non inferiore ai minimi previsti, per prestazioni analoghe, dalla contrattazione collettiva nazionale del settore o della categoria affine, ovvero, per i rapporti di lavoro diversi da quello subordinato, in assenza di contratti o accordi collettivi specifici, ai compensi medi in uso per prestazioni analoghe rese in forma di lavoro autonomo”.
Ancora si consideri, da ultimo, l’art. 29 c. 1 bis d.lgs. n. 276/2003 che in materia di appalto prevede espressamente che al personale impiegato negli appalti “spetta un trattamento economico e normativo complessivamente non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale e territoriale stipulato dalle associazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, applicato nel settore e per la zona strettamente connessi con l’attività oggetto dell’appalto e del subappalto”.
Vi sono poi ulteriori norme, che pur avendo finalità diverse, guardano allo stretto rapporto tra contratto collettivo rappresentativo e retribuzione in termini di garanzia di salario minimo.
Si considerino, ad esempio, all’art. 1 c. 1175 L. 296/2006, che, nella formulazione rivista dal DL n. 19/2024 in tema di godimento di sgravi contributivi allorquando si afferma che “i benefici normativi e contributivi previsti dalla normativa in materia di lavoro e legislazione sociale sono subordinati al possesso, da parte dei datori di lavoro, del documento unico di regolarità contributiva, all’assenza di violazioni nelle predette materie, ivi comprese le violazioni in materia di tutela delle condizioni di lavoro nonché di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro individuate con decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, fermi restando gli altri obblighi di legge ed il rispetto degli accordi e contratti collettivi nazionali nonché di quelli regionali, territoriali o aziendali, laddove sottoscritti, stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”.
Ulteriori disposizioni perseguono la stessa finalità ma dal punto di vista del principio della parità di trattamento, come ad esempio l’art. 35 d.lgs. n. 81/2015 che, in tema di somministrazione precisa che “Per tutta la durata della missione presso l’utilizzatore, i lavoratori del somministratore hanno diritto, a parità di mansioni svolte, a condizioni economiche e normative complessivamente non inferiori a quelle dei dipendenti di pari livello dell’utilizzatore.”
Vi sono poi una serie di norme che impattano latamente sulla questione e mi riferisco alle norme contenuto nel Codice degli contratti pubblici, sia nella formulazione precedente contenuta nel d.lgs. n. 50/2016 che nel Codice attualmente vigente introdotto dal d.lgs. n. 36/2023.
In particolare, mi riferisco all’art. 11 d.lgs. n. 30/2016, che in materia di tutele dei lavoratori impiegati nella filiera degli appalti, prevede espressamente che:
1. Al personale impiegato nei lavori, servizi e forniture oggetto di appalti pubblici e concessioni è applicato il contratto collettivo nazionale e territoriale in vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni di lavoro, stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e quello il cui ambito di applicazione sia strettamente connesso con l’attività oggetto dell’appalto o della concessione svolta dall’impresa anche in maniera prevalente.
2. Nei bandi e negli inviti le stazioni appaltanti e gli enti concedenti indicano il contratto collettivo applicabile al personale dipendente impiegato nell’appalto o nella concessione, in conformità al comma 1.
3. Gli operatori economici possono indicare nella propria offerta il differente contratto collettivo da essi applicato, purché garantisca ai dipendenti le stesse tutele di quello indicato dalla stazione appaltante o dall’ente concedente.
4. Nei casi di cui al comma 3, prima di procedere all’affidamento o all’aggiudicazione le stazioni appaltanti e gli enti concedenti acquisiscono la dichiarazione con la quale l’operatore economico individuato si impegna ad applicare il contratto collettivo nazionale e territoriale indicato nell’esecuzione delle prestazioni oggetto del contratto per tutta la sua durata, ovvero la dichiarazione di equivalenza delle tutele. In quest’ultimo caso, la dichiarazione è anche verificata con le modalità di cui all’articolo 110.
5. Le stazioni appaltanti e gli enti concedenti assicurano, in tutti i casi, che le medesime tutele normative ed economiche siano garantite ai lavoratori in subappalto.”
Accanto a tale norma si consideri all’art. 57 d.lgs. n. 36/2023, il quale afferma che “Per gli affidamenti dei contratti di appalto di lavori e servizi diversi da quelli aventi natura intellettuale e per i contratti di concessione i bandi di gara, gli avvisi e gli inviti, tenuto conto della tipologia di intervento, in particolare ove riguardi il settore dei beni culturali e del paesaggio, e nel rispetto dei principi dell’Unione europea, devono contenere specifiche clausole sociali con le quali sono richieste, come requisiti necessari dell’offerta, misure orientate tra l’altro a garantire le pari opportunità generazionali, di genere e di inclusione lavorativa per le persone con disabilità o svantaggiate, la stabilità occupazionale del personale impiegato, nonché l’applicazione dei contratti collettivi nazionali e territoriali di settore, tenendo conto, in relazione all’oggetto dell’appalto o della concessione e alle prestazioni da eseguire anche in maniera prevalente, di quelli stipulati dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e di quelli il cui ambito di applicazione sia strettamente connesso con l’attività oggetto dell’appalto o della concessione svolta dall’impresa anche in maniera prevalente, nonché a garantire le stesse tutele economiche e normative per i lavoratori in subappalto rispetto ai dipendenti dell’appaltatore e contro il lavoro irregolare”.
O ancora, in modo molto più pregnante per quel che qui interessa, le norme in materia di esclusione di appalti pubblici, si consideri l’art. 95 c. 1 lett. a) che prevede l’esclusione in caso di “gravi infrazioni, debitamente accertate con qualunque mezzo adeguato, alle norme in materia di salute e di sicurezza sul lavoro nonché agli obblighi in materia ambientale, sociale e del lavoro stabiliti dalla normativa europea e nazionale, dai contratti collettivi o dalle disposizioni internazionali elencate nell’allegato X alla direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 febbraio 2014;
Infine, sul piano europeo e internazionale, non si può che ricordare, da ultimo, la Direttiva UE 2022/2041 in materia di salari minimi adeguati, la quale individua la contrattazione collettiva come sede principale e naturale per la risoluzione delle problematiche connesse all’individuazione del salario minimo rispettoso dei principi di equità, proporzionalità e sufficienza in armonia con le potenzialità produttive del sistema economico da cui trarre le risorse.
Ebbene, dal raffronto tra le disposizioni fin qui richiamate e la giurisprudenza inaugurata dalla Corte di Cassazione emerge come gli Ermellini si siano preoccupati un problema diverso dal salario minimo, tant’è vero che nell’evocarne la nozione pare che la si riconnetta piuttosto a un concetto di limite minimo oltre il quale non si può scendere, ma non in termini di giudizio di equità, quanto, piuttosto al fine di evitare di giungere a un lavoro povero o, piuttosto, per usare le parole della Corte, a una povertà nonostante il lavoro.
E allora occorre chiedersi se, soprattutto in materia di appalti e secondariamente in materia di somministrazione, la Giurisprudenza della Corte di Cassazione possa trovare un qualche riverbero che possa farci riflettere.
In questo senso, non vi sono particolari problemi nei casi di responsabilità solidale in materia di appalti e di somministrazione ex art. 29 c. 2 dlgs n. 276/2003.
E’ infatti evidente che il meccanismo della solidarietà ha una portata talmente ampia che debba coprire anche le ipotesi di salario rideterminato ai sensi dell’art. 36 Cost. in favore del lavoratore dipendente dell’appaltatore o del subappaltatore.
Sotto questo profilo occorrerà piuttosto capire quale retribuzione riparametrata sia coperta dalla rideterminazione ai sensi dell’art. 36 Cost.
Sotto questo profilo possa comunque trovare applicazione il filone giurisprudenziale ben rappresentato dalla Sentenza della Corte di Cassazione n. 5247/2022 che espressamente limita la responsabilità del committente ai trattamenti retributivi, la cui maturazione è per così dire sinallagmaticamente connessa con l’esecuzione della prestazione lavorativa per cui devono essere escluse le indennità sostitutive per ferie e permessi.
Ed allora ritengo che il committente possa e debba rispondere della retribuzione rideterminata nel limite di quanto espressamente connesso con l’esecuzione del rapporto di lavoro.
Quid iuris, invece, per effetto della modifica di cui all’art. 29 c. 2 ult. cpv. introdotta dal D.L. n. 19/2024 in materia di responsabilità solidale anche nel caso di appalti illeciti di manodopera che si sostanziano in situazione di interposizione.
E’ sempre stato insegnamento pacifico, che in caso di appalto illecito di manodopera, e previa azione di riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato direttamente alle dipendenze del committente/utilizzatore, quest’ultimo fosse responsabile in via autonoma ed esclusiva delle conseguenze retributive e contributive, potendo unicamente avvantaggiarsi di quanto corrisposto dall’appaltatore formale.
Diversamente, per il caso di appalto lecito, riviveva la responsabilità solidale con il limite dei due anni dalla cessazione dell’appalto ai fini dell’esercizio dell’azione.
Per effetto della novella, il lavoratore vede riconosciuta un’ulteriore tutela che è quella di poter aggredire sia il committente/utilizzatore quale effettivo datore di lavoro sia l’appaltatore.
La norma per come è scritta presenta profili di difficile coordinamento con l’azione per il riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato ed anche in punto di riconoscimento di salario minimo.
In particolare il problema è dato dal termine di due anni per l’esercizio dell’azione di responsabilità solidale nei confronti del committente. Ora, se ci si dovesse limitare all’interpretazione letterale, parrebbe che nel caso di appalto illecito, il lavoratore avrebbe comunque il termine di due anni per azionare la responsabilità solidale nei confronti del committente per quanto maturato nel periodo di durata dell’appalto, risultando invece il resto sottoposto al normale regime prescrizionale in materia di crediti retributivi.
Può dunque capitare che il lavoratore agisca per il riconoscimento di un rapporto di lavoro in caso di appalto illegittimo ma ometta di azionare la responsabilità solidale del committente, andando a perdere, dunque, la possibilità di rivalersi sul debitore che, di fatto, è il proprio datore di lavoro.
Deve ritenersi che la norma però debba essere esaminata in punto di autonomia delle diverse azioni, nel senso che il committente/utilizzatore, in realtà, ha una doppia responsabilità, ovvero come datore di lavoro sostanziale e come responsabile solidale ai sensi dell’art. 29 c. 2 dlgs n. 276/2003 come modificato dal DL 19/2024. In tal modo, vede estesa la platea dei debitori responsabili anche all’appaltatrice solo formale.
Accanto alla fattispecie dell’appalto, sia poi consentito richiamare anche la somministrazione la quale, sotto il profilo della questione di cui si discute, lascia ancora più margini di intervento e di opinabilità perché la formulazione dell’art. 35 dlgs n. 81/2015, che è direttamente figlio della Direttiva CE 2008/104, impone il principio della parità di trattamento “per cui i lavoratori somministrati hanno diritto a condizioni economiche e normative complessivamente non inferiori a quelle dei dipendenti di pari livello dell’utilizzatore”.
Ed infatti, il riferimento al trattamento economico e normativo è talmente ampio che, come fin qui visto, potrebbe non essere sufficiente applicare condizioni pari a quelle applicate ai dipendenti dell’utilizzatore, perché sia gli uni che gli altri potrebbero astrattamente percepire una retribuzione inferiore rispetto ai limiti e della contrattazione collettiva ex art. 51 dlgs n. 81/2015 e, più in generale, in relazione all’art. 36 Cost.
Ulteriore questione è data poi dalle conseguenze di una rideterminazione della retribuzione ex art. 36 Cost. Rispetto a quell’insieme di norme, solitamente di carattere sanzionatorio, che utilizzano la retribuzione globale di fatto ove ancora applicabile o la retribuzione utile ai fini del calcolo del TFR.
Insomma, diviene davvero complicato determinare gli esiti di una controversia alla luce di tali vicende.
Vi è poi un’ultima e importante questione da affrontare.
Il Codice dei contratti pubblici così come, ad esempio, l’art. 1 c. 1175 L. n. 296/2006 in materia di sgravi contributivi, prevede, nelle varie disposizioni fin qui richiamate, il problema del rispetto delle condizioni di lavoro per come dettate dalla normativa nazionale, europea e dai contratti collettivi.
Fino ad ora la giurisprudenza amministrativa ma anche quella lavoristica si è fin qui occupata, perché ad onor del vero di queste questioni è stata investita, della corrispondenza dei contratti collettivi applicati dagli operatori rispetto a quelli comparativamente più rappresentativi e lì unicamente si è risolto il giudizio, sul presupposto del principio di presunzione di corrispondenza tra questi ultimi e il salario per come inteso dall’art. 36 Cost.
Ma l’orientamento inaugurato dalla Corte di Cassazione non potrà che avere un’incidenza diretta sul Giudice amministrativo così come sul Giudice del Lavoro quando viene chiamato a discutere di benefici contributivi.
E’ vero che l’art. 11 così come l’art. 57 sopra richiamato offrono il parametro del CCNL comparativamente più rappresentativo applicabile per settore e area geografica ai fini della valutazione della legittimità dell’operato del concorrente per l’aggiudicazione di un appalto o di una concessione, ma il richiamo operato dall’art. 95, c. 1 lett. a) impone alla stazione appaltante di effettuare una valutazione evidentemente maggiormente ponderata perché la norma richiama espressamente la nozione di grave infrazioni agli obblighi previsti dalla normativa normativa nazionale, europea e solo in terzo luogo della contrattazione collettiva.
E l’art. 36 Cost pone un obbligo cogente direttamente in capo ai datori di lavoro. Occorre interrogarci sul comportamento della Pubblica Amministrazione in sede di valutazione delle offerte, perché non è detto che l’applicazione di un CCNL che sia rispettoso dei criteri offerti dall’art. 11 dlgs n 36/2023 sia anche rispettoso dell’art. 36 Cost per come interpretato dalla Giurisprudenza di legittimità nostrana.
Salario equo e contribuzione: il problema degli sgravi contributivi.
La giurisprudenza della Corte di Cassazione incide poi sulle conseguenze sanzionatorie in tema di contribuzione previdenziale.
Con riferimento al rispetto del minimale contributivo, atteso il chiaro aggancio alla contrattazione collettiva di settore maggiormente rappresentativa non vi sono particolari problemi.
Diverso è il caso degli sgravi contributivi. Anche qui, si pone il problema dell’art. 36 Cost., perché il legislatore ha posto come parametro il rispetto delle normativa in materia di lavoro tout court, e non soltanto quella prevista dalla contrattazione collettiva. Potrebbe dunque capitare che si possa revocare uno sgravio contributivo perché i minimi retributivi applicati in ragione di un CCNL pure rispondente al criterio della maggiore rappresentatività non rispetti comunque l’art. 36 Cost. per come interpretato dalla Giurisprudenza.
E sul punto occorre ricordare che in tema di onere della prova, è il soggetto che pretende di poter godere degli sgravi contributivi a dover dimostrare di averne diritto, con tutte le problematiche connesse alla tenuta della presunzione di congruità del CCNL comparativamente più rappresentativo rispetto all’art. 36 Cost.
Gli avvocati dello Studio Legale Dedoni sono a disposizione al fine di valutare le problematiche connesse all’equa retribuzione sia dal punto di vista dei datori di lavoro che dei lavoratori.
L’avvocato Ivano Veroni collabora con lo studio Dedoni dall’anno 2011.
Durante l’esercizio della professione, l’Avvocato Veroni ha maturato specifiche competenze nel settore del Diritto del Lavoro e del Diritto Amministrativo.
E’ docente di diritto del lavoro per l’ANCI Sardegna e per l’IFEL.
Nell’anno 2022 ha ricoperto il ruolo di componente della Sottocommissione per la formazione in diritto del lavoro nel Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Cagliari ed è relatore in materia di diritto del lavoro nei convegni organizzati dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Cagliari.