Lo Studio Legale Dedoni, con Gli avvocati Andrea Dedoni ed Ivano Veroni, ha partecipato, il 12 luglio 2024, all’evento formativo patrocinato dall’AGI

Dialogo Sull’equa Retribuzione Ad Un Anno Dalla Sentenza Della Corte Di Cassazione N.27711/2023

Per Giurisprudenza costante i parametri di adeguatezza e proporzionalità dettati dall’art.36 della Costituzione si ritengono soddisfatti dai minimi retributivi fissati da un contratto collettivo tanto che si può affermare che i minimi tabellari della retribuzione contenuti in un CCNL si presumono adeguati e proporzionati ai sensi dell’art.36 della Costituzione.

E’ noto che nel caso di rapporti non formalizzati, la retribuzione equa ai sensi dell’art.36 COST viene individuata dal giudice col raffronto al CCNL di settore sottoscritti dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative e che pertanto quanto riportato nel CCNL è retribuzione proporzionata e sufficiente ai sensi dello stesso art. 36 Cost.

Si può affermare che la facoltà di scelta del contratto collettivo da applicare ai rapporti di lavoro ricade tra le insindacabili decisioni del datore di lavoro. Tendenzialmente il datore di lavoro può scegliere qualsiasi contratto collettivo anche se totalmente incoerente con l’attività imprenditoriale esercitata perché non vi è una norma che limiti la scelta datoriale.

I limiti che incontra questa regola sono sostanzialmente due: l’iscrizione del datore di lavoro ad una associazione stipulante il CCNL ed in quel caso è obbligato all’applicazione del contratto sottoscritto dalla associazione alla quale si è iscritto e l’applicazione in via di fatto di un determinato CCNL, applicazione che seppure spontanea, impone al datore di lavoro di garantire in via continuativa ai suoi lavoratori i minimi retributivi del CCNL.

C’è un precedente illustre nella storia dell’industria Italiana dell’applicazione di questa regola quando, nell’anno 2012, la Fiat uscì da Confindustria.

Nella realtà l’allora CEO della Fiat, Sergio Marchionne, non intendeva aderire all’accordo interconfederale del 21 settembre 2012 in materia di flessibilità che riteneva troppo limitativo, disdettò in CCNL Metalmeccanici Industria e si fece un suo contratto collettivo aziendale, con uno strascico giudiziario perché una sigla sindacale vinse in cassazione contro la Fiat circa la decorrenza di disdetta che non poteva essere intimata prima della scadenza del CCNL

Esistono alcune disposizioni di legge che impongono in determinati settori (cooperative, trasporto aereo, terzo settore) il rispetto di livelli salariali minimi, ma sempre con rinvio alla contrattazione collettiva

Da ultimo L’art. 11 d. lgs. 36/2023 (codice appalti) prevede: “Al personale impiegato nei lavori, servizi e forniture oggetto di appalti pubblici e concessioni è applicato il contratto collettivo nazionale e territoriale in vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni di lavoro, stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e quello il cui ambito di applicazione sia strettamente connesso con l’attività oggetto dell’appalto o della concessione svolta dall’impresa anche in maniera prevalente”

I tre criteri

  • della maggiore rappresentatività comparativa sul piano nazionale dei soggetti stipulanti
  • dell’ applicabilità su base geografica “la zona nella quale si eseguono le prestazioni di lavoro”
  • la stretta connessione con l’oggetto dell’appalto (o subappalto)

sono utilizzati anche nel nuovo comma 1-bis dell’art. 29 d. lgs. 276/2003 , per individuare il CCNL applicabile negli appalti tra privati.

La norma intende arginare il dumping salariale; tuttavia l’applicazione dei   contratti collettivi stipulati da organizzazioni “minoritarie” rimane lecita al di fuori degli appalti.

Questo era quanto accadeva quantomeno fino al mese di ottobre 2023

Si è però sviluppato un acceso dibattito sul potere del Giudice di dichiarare l’illegittimità delle norme del CCNL in materia di minimi tabellari retributivi applicato spontaneamente dal datore di lavoro, con conseguente imposizione di altra e diversa retribuzione parametrata di un diverso CCNL.

E’ evidente che se viene riconosciuto tale potere, di fatto si finisce per incidere sulla discrezionalità del datore di lavoro di poter scegliere il CCNL da applicare ai rapporti di lavoro all’interno della sua azienda, finendo per attribuire al Giudice il potere di individuare un salario minimo, potere che però non trova corrispondenza in nessun provvedimento legislativo.

E’ accaduto che sia il Tribunale di Milano prima che quello di Catania successivamente, abbiano pronunciato la illegittimità delle norme del CCNL vigilanza privata – servizi fiduciari, che fissavano minimi tabellari inferiori ad altri CCNL applicati allo stesso settore ed in particolare il CCNL Multiservizi.

La novità è che il CCNL vigilanza privata – servizi fiduciari, siglato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative CGIL e CISL, poi ratificato da UGL e pertanto si tratta di un CCNL leader e non uno di quei contratti collettivi che sono stati sottoscritti solo da sigle minori, comunemente chiamati “contratti pirata”  

Il Tribunale di Milano, Sezione del Lavoro, con la Sentenza n.673 del 22 marzo 2022, ha accolto il ricorso di due lavoratori di una cooperativa sociale che svolge servizi di portierato e guardiania, che hanno richiesto al datore di lavoro le differenze retributive ricomputate sulle tabelle del Ccnl Multiservizi in luogo di quelle del CCNL vigilanza privata – servizi fiduciari applicato ai loro rapporti di lavoro

I lavoratori hanno lamentato che il CCNL Multiservizi prevede, per mansioni di medesima complessità e natura, trattamenti retributivi superiori e più coerenti con il precetto costituzionale dell’art. 36.

Il Tribunale di Milano, con un giudizio di tipo comparativo, ha ritenuto che la misura della retribuzione annua lorda riconosciuta dal CCNL vigilanza privata – servizi di guardiania, per lo svolgimento full time di attività di guardiano notturno, non sia proporzionata alla quantità e qualità del lavoro, posto che i valori retributivi di mercato fotografati da altri CCNL applicabili a tali mansioni e su tutti il CCNL Multiservizi, risultano sensibilmente superiori.

A sostegno di tale assunto ha posto in evidenza il fatto che i livelli retributivi in questione risultano addirittura inferiori alla soglia di povertà ISTAT, con la conseguenza che essi non risultano idonei ad evitare al lavoratore e alla sua famiglia di vivere in condizioni di bisogno ed indigenza.

Secondo il Tribunale di Milano è sempre possibile per il giudice discostarsi in melius dai parametri retributivi previsti da un Contratto Collettivo Nazionale quando riscontri che il trattamento economico determinato dalle parti sociali sia in contrasto con il precetto dell’art. 36 della Costituzione. In questi casi sarebbe consentito al giudice di assumere come criterio orientativo un contratto collettivo nazionale non applicato a quel determinato rapporto di lavoro, con l’unico limite di dover indicare nella motivazione della sentenza i criteri di valutazione utilizzati in modo da consentire il controllo circa la correttezza e congruità logico giuridica della decisione.

In realtà il Giudice di Milano richiama una sentenza la n.20452 del 2018 che dice una cosa diversa. Il caso è quello di un associato in partecipazione che ha visto riconosciuta in appello l’esistenza della subordinazione. La Cassazione ha chiarito, ma non c’è nulla di nuovo in questo, che il Giudice può utilizzare come base di calciolo per la retribuzione equa ex art 36 Cost anche un CCNL leader diverso da quello di settore ma solo per individuare la paga base. Di fatto la sentenza ribadisce il primato del CCNL.

Cosa diversa è disapplicare un CCNL e applicarne un altro come ha fatto il Tribunale di Milano.

Il Tribunale di Milano ha riconosciuto il diritto dei lavoratori a percepire una retribuzione parametrata sul CCNL Multiservizi

Il Giudice del Lavoro di Catania, poco più di un anno dopo, con la Sentenza del 21 luglio 2023, ha stabilito che la retribuzione oraria prevista dal Ccnl vigilanza privata – servizi fiduciari, siglato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, per le mansioni di usciere, non è conforme all’articolo 36 della Costituzione e pertanto le relative clausole del contratto, articoli 23 e 24, sono nulle e devono applicarsi i minimi salariali previsti da un altro contratto collettivo affine.

Pur riconoscendo che il livello retributivo fissato da un contratto collettivo è accompagnato da «una presunzione di adeguatezza» ai sensi dell’art. 36 della Costituzione, afferma che questa presunzione non è assoluta, ben potendo il lavoratore fornire una prova contraria. Nel caso del CCNL contestato, il Giudice del Lavoro di Catania ha ritenuto che la retribuzione oraria prevista non sia adeguata a garantire un’esistenza veramente libera e dignitosa e che la prova della sua inadeguatezza sia stata fornita mediante la comparazione di altri tre contratti collettivi stipulati dai sindacati rappresentativi nel settore o di settori analoghi e precisamente il CCNL per i dipendenti da proprietari di fabbricati, il CCNL terziario e il CCNL multiservizi.

Sulla base di queste considerazioni, il Tribunale conclude rilevando la nullità delle clausole collettive del contratto vigilanza privata – servizi fiduciari che fissano la retribuzione per le mansioni di usciere, in quanto gli altri accordi collettivi prevedono, per identiche mansioni, una retribuzione di gran lunga superiore.

Il Tribunale di Catania ha riconosciuto il diritto ad una retribuzione parametrata sul CCNL Proprietari di immobili

Per chiudere il quadro della prima tornata di Giurisprudenza che denota una evidente incertezza e scarsa uniformità, deve altresì segnalarsi che Il Tribunale Amministrativo regionale per la Lombardia, un mese dopo, con la Sentenza n.20046 del 4 settembre 2023, si è pronunciato in maniera diametralmente opposta a quanto  affermato dai Giudici del Lavoro di Milano e Catania, legittimando di fatto proprio il CCNL per i dipendenti da Istituti e Imprese di Vigilanza Privata e Servizi Fiduciari quale fonte di riferimento per definire l’adeguatezza e la proporzionalità della retribuzione.

Il caso concreto affrontato dal TAR della Lombardia è relativo ad un verbale di accertamento emesso dalla dall’Ispettorato Territoriale del Lavoro di Como con il quale era stata disposta, in capo alla Cooperativa datrice di lavoro, la corresponsione ai suoi soci lavoratori delle differenze retributive rideterminate secondo il CCNL Multiservizi in luogo del CCNL per i dipendenti da Istituti e Imprese di Vigilanza Privata e Servizi fiduciari applicato ai rapporti di lavoro.

Osservano i Giudici Ammnistrativi che “… … … secondo la legge, il trattamento complessivo minimo da garantire al socio-lavoratore è quello previsto dal C.C.N.L. comparativamente più rappresentativo del settore, che funge da parametro esterno di commisurazione della proporzionalità e della sufficienza del trattamento economico da corrispondere al socio lavoratore, ai sensi dell’art. 36 Cost. (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 51 del 2015). In tal modo si impedisce l’applicazione al socio-lavoratore di una Cooperativa di un Contratto collettivo c.d. “pirata” (ovvero sottoscritto da organizzazioni sindacali minoritarie e quindi poco rappresentative) o l’applicazione di un Contratto collettivo non pertinente rispetto al settore di attività in cui opera la predetta Cooperativa” e che “Certamente il predetto Contratto collettivo appare appropriato rispetto all’attività svolta dalla Cooperativa ricorrente, visto il settore in cui la stessa è attiva; il differente Contratto collettivo per l’area Multiservizi si riferisce alle imprese che operano anche nel settore della pulizia, della logistica e dei servizi integrati di global service, cui la ricorrente risulta estranea”.

Osservano altresì i Giudici del TAR che, in ogni caso il Contratto collettivo della Vigilanza privata e dei servizi fiduciari applicato dalla Cooperativa è stato sottoscritto dai sindacati di settore maggiormente rappresentativi e che pertanto non può essere messo in dubbio né che sia un contratto pirata né che non sia idoneo a fungere da parametro per l’individuazione della soglia della retribuzione da considerare proporzionata ai sensi dell’art. 36 Cost.

I Giudici del TAR concludono il loro ragionamento nel senso di negare al Giudice ovvero a qualsivoglia autorità di controllo, il potere di individuare la giusta retribuzione in assenza di una legge che imponga un salario minimo.

Tale potere infatti non solo non sarebbe contrario alla legge e in particolare al disposto di cui all’art. 7, comma 4, del decreto legge n. 248 del 2007, che prevede unicamente che le società cooperative debbano applicare ai propri soci lavoratori i trattamenti economici complessivi non inferiori a quelli previsti dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, ma avrebbe anche conseguenze negative in termini di disparità di trattamento tra i lavoratori e le imprese perché conseguenti ad interventi limitati ai singoli casi giudiziari e non invece ad un approccio di natura complessiva e sistemica.

Deve rilevarsi che non è la prima volta che la Giurisprudenza Amministrativa e quella del Lavoro si trovano in contrasto per esempio ciò accade in materia di Cessazione dell’appalto e applicazione della clausola sociale dei contratti collettivi nazionali.

E’ forse l’approccio più sostanziale alla materia del lavoro che caratterizza i provvedimenti del Giudice del Lavoro in luogo di un approccio più formale del Giudice Amministrativo a causare il conflitto. Quello che è certo è che in mancanza di un salario minimo fissato dalla Legge, la possibilità per ciascun giudice di fissare la giusta retribuzione, seppure sulla base di ragionamenti logico giuridici ineccepibili ma non rivolti alla generalità dei lavoratori in analoghe condizioni lavorative, porterebbe inevitabilmente a ingiuste disparità di trattamento sia per i lavoratori che per le imprese, con conseguenze negative sia in termini sociali ma anche produttivi e della concorrenza.

In tale dibattito intervengono le Sentenze n.27711/2023 e n.27769 del 2 ottobre 2023, della Corte di Cassazione che sembrano porre un punto fermo e definitivo sulla questione.

La sentenza  27711/2023

Anche in questo caso un lavoratore di un istituto di vigilanza privata aveva richiesto al Giudice l’adeguamento delle retribuzioni percepite e parametrate secondo il CCNL per i dipendenti delle imprese di vigilanza privata sottoscritto dai sindacati maggiormente rappresentativi, lamentando la non conformità ai parametri dell’art. 36 della Costituzione del trattamento retributivo applicato secondo il contratto collettivo.

In primo grado la domanda era stata accolta ed il datore di lavoro condannato a corrispondere una retribuzione parametrata ad un diverso contratto collettivo, quello dei dipendenti di proprietari di immobili e fabbricati.

La Corte d’appello di Torino, in accoglimento del ricorso in appello presentato dal datore di lavoro, aveva riformato la sentenza di primo grado sulla base del fatto che il datore di lavoro aveva pacificamente applicato il CCNL per i dipendenti delle imprese di Vigilanza privata – servizi fiduciari, contratto collettivo di settore che era stato stipulato da organizzazioni sindacali dei lavoratori maggiormente rappresentative a livello nazionale.

La Corte d’appello di Torino affermava che andrebbero esclusi dalla valutazione di conformità ex art. 36 Costituzione quei rapporti di lavoro che sono regolati dai contratti collettivi propri del settore di operatività e sono siglati da organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale e che la retribuzione stabilita dalla norma collettiva acquista “una presunzione di adeguatezza ai principi di proporzionalità e sufficienza che investe le disposizioni economiche del contratto collettivo anche negli interni rapporti tra le singole retribuzioni”.

La Sentenza della Corte di cassazione non elenca tutti i possibili parametri alternativi ma si limita a richiamare alcuni istituti come per esempio, i dati Uniemens censiti dall’Inps per il salario medio, i valori dell’indennità Naspi, i trattamenti di integrazione salariale in presenza di riduzione o sospensione dell’attività e altre forme di sostegno al reddito, “anche secondo quanto suggerito dalla Direttiva Ue 2022/2041 del 2022 del 19 0ttobre 2022”.

Evidenzia però che nel caso di specie il lavoratore, oltre a richiamare il valore soglia di povertà, aveva dedotto di aver lavorato nell’ambito del medesimo appalto con differenti  e successive aziende appaltatrici per svolgere le stesse mansioni ma veniva pagato sempre di meno in applicazione di differenti contratti collettivi nazionali.

Mette in evidenza, contrariamente a quanto aveva ritenuto la Corte d’Appello di Torino, che lo straordinario va sempre escluso dalla retribuzione media o mediana “in termini generali, sia perché si tratta di un emolumento eventuale e non ordinario del lavoro svolto, sia perché sarebbe incongruo affermarlo quante volte il lavoratore, proprio in ragione della esiguità di base del salario percepito, costretto a svolgere molte ore di lavoro straordinario per raggiungere la soglia minima di conformità richiesta dalla costituzione”   

La questione sembra intuitiva e non contestabile ma così non è, perchè come si vedrà più avanti, nell’analisi del documento di analisi redatto dal CNEL non si è raggiunta una univoca definizione degli elementi da porre a base di calcolo della retribuzione equa.  

Una delle criticità più evidenti che viene affrontata nella motivazione, uno dei nodi oggettivamente più difficili da sciogliere, consistente nel fatto che la retribuzione effettivamente corrisposta al lavoratore sia conforme a quella stabilita da un CCNL siglato dai sindacati maggiormente rappresentativi.

Non si parla infatti di contratti collettivi “pirata” ma di contratti collettivi sottoscritti tra gli altri, dalle tre sigle sindacali storiche, che hanno come mandato istituzionale quello di stipulare contratti collettivi a tutela dei lavoratori. Secondo la Cassazione nel nostro ordinamento una legge sul “salario legale” non può realizzarsi attraverso un rinvio in bianco alla contrattazione collettiva.

Se da un lato i Giudici affermano che “resta sempre valido il monito formulato da questa Corte con cui si invita il Giudice che si discosti da quanto previsto dai contratti collettivi ad usare la massima prudenza ed adeguata motivazione, giacchè difficilmente è in grado di apprezzare le esigenze economiche e politiche sottese all’assetto degli interessi concordato dalle parti sociali”, dall’altro però afferma che “Non potendo il giudice abdicare a questa funzione di controllo, si ripropone semmai il problema dell’orientamento della sua discrezionalità motivata, in relazione all’applicazione di una norma costituzionale a contenuto generale direttamente applicabile nei rapporti inter partes ed inoltre il tema della ricerca di un quid pluris congruo e funzionale allo scopo, rispetto al quantum parametrico costituito dalla sola contrattazione, che si riveli in concreto inappagante”.

Nella sentenza non manca un monito alla parte politica laddove si sottolinea la “carenza a tutt’oggi di altri meccanismi tali da garantire in concreto ad ogni individuo che lavora nel nostro Paese il diritto ad un salario minimo giusto o altrimenti una soddisfazione  automatica o un controllo documentale della corretta erogazione del salario costituzionale,  all’infuori di una controversia processuale (o di un accertamento ispettivo)”.

La Sentenza cassa con rinvio alla Corte d’appello di Torino ponendo il seguente principio di diritto:

“Nell’attuazione dell’art.36 della Cost. il giudice, in via preliminare, deve fare riferimento, quali parametri di commisurazione, alla retribuzione stabilita dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria, dalla quale può motivatamente discostarsi, anche ex officio, quando la stessa entri in contrasto con i criteri normativi di proporzionalità e sufficienza della retribuzione dettati dall’art. 36 Cost., anche se il rinvio alla contrattazione collettiva applicabile al caso concreto sia contemplato in una legge, di cui il giudice è tenuto a dare una interpretazione costituzionalmente orientata.

2.- Ai fini della determinazione del giusto salario minimo costituzionale il giudice può servirsi a fini parametrici del trattamento retributivo stabilito in altri contratti collettivi di settori affini o per mansioni analoghe.

3.- Nella opera di verifica della retribuzione minima adeguata ex art. 36 Cost. il giudice, nell’ambito dei propri poteri ex art. 2099,2° comma c.c., (in mancanza di accordo tra le parti , la retribuzione è determinata dal Giudice) può fare altresì riferimento, all’occorrenza, ad indicatori economici e statistici, anche secondo quanto suggerito dalla Direttiva UE 2022/2041 del 19 ottobre 2022. 56.”

Ma questo significa che la “giusta retribuzione” nelle decisioni future anche dei Giudici del merito, non dovrà necessariamente essere parametrata a quella indicata in un contratto collettivo applicato in settori produttivi analoghi, ancorché diverso da quello applicato dal datore di lavoro, ma quella desumibile anche fonti esterne come l’indice Istat, statisticamente utilizzato per misurare la soglia di povertà o la soglia di reddito per accedere alla pensione di inabilità.

La linea giurisprudenziale appena tracciata è stata confermata dalla Sentenza della Corte di Cassazione n.28320 del 10 ottobre 2023 e, nel merito, dalla Sentenza n.2720 del 13 ottobre 2023 del Tribunale di Bari.

La Sentenza della Corte di Cassazione n.28320 del 10 ottobre 2023

Il caso di specie riguardava alcuni dipendenti di una spa con mansioni di portiere, addetto alla guardiania, che svolgevano la loro prestazione lavorativa prevalentemente nel turno notturno, inquadrati nel livello D ccnl per i dipendenti di istituti ed imprese di vigilanza privata – servizi fiduciari.

La corte di appello di Milano dichiarava nullo l’art . 23 del ccnl servizi fiduciari riguardante il minimo salariale e condannava il datore di lavoro a pagare le differenze salariali parametrate sul CCNL dei proprietari di immobili.

La Società datore di lavoro ricorreva in cassazione affermando  il diritto  di  retribuire  i dipendenti secondo quanto  previsto dal CCNL sottoscritto dalle organizzazioni sindacali maggiormente  rappresentative (CGIL e CISL) e coerente con il settore merceologico in cui opera,  ossia quello dei servizi di portierato / reception svolti per conto di terzi.

Le motivazioni della Sentenza, che confermano la sentenza della corte d’Appello di Milano, richiamano, in larga parte, la Sentenza commentata in apertura. Si ribadisce che il giudice è chiamato  in causa in ultima istanza  in quanto il riferimento al salario di cui al CCNL integra solo una  presunzione relativa di conformità alla  Costituzione.

La Corte di Cassazione ha anche affermato che la norma del CCNL dei servizi fiduciari che esclude il pagamento delle ore straordinarie dalla retribuzione normale durante le ferie non è legittima perché si si pone in contrasto con i parametri di sufficienza e proporzionalità stabiliti dall’articolo 36 della Costituzione.

La conclusione è il rigetto del ricorso e la condanna al pagamento delle differenze retributive parametrate sul CCNL dei proprietari di fabbricati

La Sentenza del tribunale di Bari n.2720/2023 del 13.10.2023

Il Giudice del Tribunale di Bari riafferma il principio indicato dalla Cassazione che per comodità chiamerò della contrattazione collettiva “inappagante” per il quale il trattamento retributivo determinato dalla contrattazione collettiva, pur dotata di ogni crisma di rappresentatività, può comunque risultare in concreto lesivo del principio di proporzionalità alla quantità e qualità del lavoro. Spetta sempre al giudice, in ultima battuta, l’opera di verifica della retribuzione minima adeguata ex art.36 Cost. con attribuzione di poteri talmente ampi che può fare altresì riferimento, all’occorrenza ad indicatori economici e statistici.

Il Giudice di Bari si sofferma sul panorama dei possibili indici da utilizzare per verificare l’adeguatezza della retribuzione rispetto all’art. 36 Cost. Il primo indice da prendere in considerazione è, in primo luogo, quello fissato per mansioni analoghe da altri CCNL di settori affini e, in secondo luogo, il tasso soglia di povertà assoluta.

Circa il primo indice citato il Giudice ricorda che, in ogni caso, la contrattazione collettiva opera comunque all’interno di quella generale presunzione di conformità alla Costituzione della retribuzione prevista dalle parti sociali da cui il giudice può discostarsi soltanto con grande cautela e con adeguata motivazione.

Quanto invece al tasso soglia di povertà assoluta, definito dall’l’ISTAT come “il valore monetario, a prezzi correnti, del paniere di beni e servizi considerati essenziali per ciascuna famiglia, definita in base all’età dei componenti, alla ripartizione geografica e alla tipologia del comune di residenza” il Giudice chiarisce che esso non identifica l’importo idoneo ad assicurare al lavoratore ed alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa secondo il dettato dell’art.36 della Costituzione, costituendo semplicemente una soglia al di sotto della quale si deve dubitare seriamente della sufficienza di una retribuzione a tempo pieno.

Si sofferma inoltre sugli altri possibili criteri che possono affiancarsi a questi due indici. Uno di questi è l’ammontare della retribuzione che concorre ad identificare l’“offerta congrua” di lavoro il cui rifiuto da parte dei titolari del reddito di cittadinanza si ripercuote negativamente sulla percezione di quest’ultimo.

Secondo il Giudice anche l’ammontare del reddito di cittadinanza costituisce un indice significativo. La scelta quantitativa compiuta dal legislatore nell’introdurre tale misura di politica attiva del lavoro e di contrasto alla povertà offre infatti un’indicazione di quale sia il reddito minimo necessario a sostenere le spese e essenziali e dunque concorre anch’esso a determinare la soglia al di sotto della quale la retribuzione deve ritenersi insufficiente alle esigenze di vita.

Questo il quadro giurisprudenziale delle sei sentenze che hanno per la prima volta messo in discussione il primato della contrattazione collettiva stipulata da associazioni sindacali maggiormente rappresentative.

Secondo i Giudici della Cassazione il giudice gode di un’ampia discrezionalità nella determinazione della giusta retribuzione, ampia discrezionalità che gli consente di discostarsi dai minimi retributivi della contrattazione collettiva, servendosi di altri criteri di giudizio e parametri differenti o da quelli collettivi, con l’unico obbligo di darne puntuale e adeguata motivazione rispettosa dell’art. 36 Cost.

Ma cosa è successo da ottobre 2023 ad oggi?

Non c’è stata una ulteriore evoluzione della giurisprudenza in seguito al dirompente orientamento di legittimità che abbiamo analizzato

Un primo effetto che va evidenziato è quello del rinnovo, in data 16 febbraio 2024, del tormentato CCNL Servizi Fiduciari, che vede un aumento consistente del minimale retributivo.

L’aumento, tuttavia, si  accompagna ad una diminuzione della maggiorazione per lavoro straordinario, secondo una manovra che rischia di rendere irrisorio, nel significato più proprio del termine, l’allineamento della retribuzione base al parametro costituzionale della sufficienza

Il dibattito si è acceso in campo politico ed a fronte della pressione esercitata dalle opposizioni che a gran voce hanno richiesto una legge che istituisca in Italia il salario minimo ed il Governo ha incaricato, l’11 agosto 2023, il CNEL di studiare un intervento condiviso di contrasto al lavoro povero e ai bassi salari.

Il CNEL ha prodotto, il 4 ottobre 2023, un documento “Elementi di riflessione sul salario minimo in Italia” che nega l’esistenza di minimi contrattuali collettivi inferiori all’equa retribuzione costituzionale, puntando l’attenzione sulla necessità di promuovere una contrattazione collettiva “di qualità”, capace di produrre salari attestati ben al di sopra del minimo costituzionale.

Non si può non mettere in evidenza la corrispondenza temporale del dibattito politico e delle decisioni della Cassazione.

Non è peraltro un segreto posto che nella sentenza della Cassazione 27711 /2023 viene espressamente citato il rapporto del CNEL      

Il CNEL evidenzia come eventuali incongruità o insufficienze del sistema salariale italiano sono da attribuirsi ora a fattori specifici di ciascun settore (per esempio il numero delle giornate retribuite, che nel settore di alloggio e ristorazione sono pari a 143, a fronte di una media nazionale di 235), ora a istituti tipici di una contrattazione di settore e non di un’altra (su tutti, la quattordicesima), ora sul fatto che le analogie tra i vari settori merceologici sono ostacolate dal fatto che la contrattazione salariale italiana non è concepita su base oraria.

A ciò si aggiunga la tendenza degli attori industriali a contrattare sempre di più su elementi incentivanti o di welfare, di gran lunga prediletti rispetto al minimo retributivo che – eccezion fatta per alcuni, in verità pochi, meccanismi di adeguamento contrattuale o di “vacanza” – tende a restare sempre uguale o, comunque, a subire poche variazioni.

Senza dimenticare, dulcis in fundo, che un intervento legislativo, per quanto penetrante (ossia in grado di determinare anche un importo orario da corrispondere a ciascun lavoratore) dovrà sempre fare i conti con altre, previgenti, disposizioni di legge in grado di derogare al salario minimo.

Tra questi si annovera anche l’art. 6, comma 1, lett. e), Legge n. 142/2001, che attribuisce all’assemblea delle cooperative datrici di lavoro la “facoltà di deliberare, nell’ambito del piano di crisi aziendale di cui alla lettera d), forme di apporto anche economico, da parte dei soci lavoratori, alla soluzione della crisi, in proporzione alle disponibilità e capacità finanziarie”. Apporto che ben può consistere in una rinunzia preventiva a introitare una parte del compenso.

I componenti della Commissione dell’informazione del CNEL sembrano concordare su due punti: l’estrema complessità del tema e la non necessità della istituzione in Italia  del salario minimo per legge.

Detta ultima affermazione si fonda su un richiamo normativo alla direttiva europea: ed infatti non si impone agli Stati membri alcun obbligo di fissare per legge il salario minimo adeguato e neppure di stabilire un meccanismo vincolante per l’efficacia generalizzata dei contratti collettivi

 La direttiva è al contrario estremamente chiara nel segnalare, rispetto all’obiettivo di promuovere un sostanziale “miglioramento dell’accesso effettivo dei lavoratori al diritto alla tutela garantita dal salario minimo” una netta preferenza di fondo per la soluzione contrattuale rispetto a quella legislativa.

La direttiva dispone che, “qualora il tasso di copertura della contrattazione collettiva sia inferiore a una soglia dell’80%”, lo Stato membro interessato debba prevedere “un quadro di condizioni favorevoli alla contrattazione collettiva, per legge a seguito della consultazione delle parti sociali o mediante un accordo con queste ultime” e definire altresì, previa consultazione delle parti sociali o sempre mediante un accordo con queste ultime, “un piano d’azione per promuovere la contrattazione collettiva”

Solo in assenza di un sistema di contrattazione collettiva adeguato nel senso sopra precisato, in alternativa alla adozione di un piano di azione per promuovere la contrattazione collettiva, gli Stati membri possono prevedere l’introduzione di un salario minimo di legge

Non mancano peraltro dei rilievi di criticità circa l’attuale sistema della contrattazione collettiva di settore.

Vediamo appresso le maggiori criticità evidenziate dal CNEL:

1) L’assenza di dati

Rispetto alle basi informative e alla conoscenza necessaria per formulare osservazioni e proposte sul tema specifico del salario minimo la Commissione per l’informazione segnala, in particolare, le seguenti criticità:

– assenza totale di dati che consentano una valutazione d’impatto di un salario minimo legale su imprese e sistema produttivo (soprattutto rispetto alle micro e alle piccole e medie imprese che è un profilo sottolineato dalla direttiva europea) ma anche sulle amministrazioni pubbliche in ragione della rilevanza degli appalti di servizi;

– mancato allineamento del sistema informativo Comunicazioni Obbligatorie del  Ministero del Lavoro con il sistema della banca dati CNEL-INPS per quanto riguarda i “codici contratto” (ma questo vale  anche per la contrattazione collettiva);

– incomparabilità tra le tariffe nominali (legali o contrattuali) di determinazione del salario minimo e i dati della massa salariale effettivamente percepita da lavoratori che è utilizzata da ISTAT per valutare l’impatto di un salario minimo legale sui lavoratori (da segnalare che, partendo dalla stessa base informativa, ISTAT e INPS pervengono, in ragione dei diversi punti di vista adottati, a conclusioni diverse);

– disallineamento tra i criteri di classificazione dei contratti collettivi e dei loro “perimetri contrattuali” da parte del CNEL rispetto ai criteri utilizzati per descrivere le attività economiche e produttive (c.d. codici ATECO);

assenza di monitoraggio sistematico di tipo qualitativo sulla contrattazione di produttività e sulle misure di welfare aziendale che pure beneficiano di rilevanti sostegni pubblici;

– assenza di monitoraggio sui trattamenti retributivi nella cooperazione di lavoro dove già esiste una previsione di legge che impone il riconoscimento ai soci lavoratori di trattamenti economici complessivi non inferiori a quelli dettati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria.

2) L’impossibilità di individuare i parametri della retribuzione da considerare quale base di calcolo per l’individuazione di un salario minimo

La Commissione prende atto del fatto che tra gli stessi componenti della Commissione dell’informazione espressione della rappresentanza d’impresa e del lavoro non esiste piena condivisione sulle voci retributive da prendere in considerazione per quantificare il “salario minimo” previsto dalla contrattazione collettiva che, a seguito di una verifica empirica dei testi contrattuali, è concetto diverso, nella quasi totalità dei contratti collettivi, dal c.d. “minimo tabellare”. Le componenti della Commissione per l’informazione espressione delle categorie economiche e produttive ritengono in prevalenza corretto e imprescindibile attribuire alle sole parti contrattuali che sottoscrivono un contratto la funzione di determinare le voci che compongono i minimi contrattuali, senza applicare dall’esterno un criterio di lettura univoco e universale, che  potrebbe falsare le dinamiche contrattuali, come è accaduto in passato con l’elaborazione giurisprudenziale della nozione onnicomprensiva di retribuzione, poi sconfessata nel 1984

Ciò che emerge, anche in merito alla contrattazione collettiva, è la totale assenza di dati certi disponibili in materia di retribuzioni contrattuali

La Commissione dell’informazione, nel prendere atto della centralità e delle enormi potenzialità dell’archivio nazionale dei contratti di lavoro, frutto di una felice intuizione del Parlamento e del prezioso lavoro degli uffici del CNEL in tutti questi anni, manifesta consapevolezza circa la necessità di una migliore informatizzazione, di un potenziamento della fruibilità e di una più aggiornata capacità di lettura dei contratti e pertanto propone alla Assemblea e al Presidente del CNEL di porre questo obiettivo nel programma della XI consiliatura auspicando altresì di realizzare in forma istituzionale uno stretto collegamento tra condizioni di lavoro, salari e produttività che è niente altro che l’essenza più profonda della funzione della contrattazione collettiva.

3) L’inesistenza di dati certi.

Il dibattito in corso sul salario minimo orario ha messo in evidenza due questioni tecniche molto rilevanti per la disponibilità di statistiche ufficiali sui livelli delle retribuzioni: – la parziale eterogeneità delle principali banche dati attualmente implementate dalle fonti statistiche ufficiali sul livello delle retribuzioni;

–             L’ISTAT integra una parte di queste informazioni nel Registro annuale su retribuzioni, ore e costo del lavoro per individui e imprese (RACLI) ed effettua la Rilevazione mensile sulle retribuzioni contrattuali, attualmente condotta su un campione di 73 contratti collettivi di più diffusa applicazione.

–             La Banca d’Italia ha a disposizione un ampio campione rappresentativo delle informazioni raccolte attraverso Uniemens (denominato BI-uniemens), attualmente aggiornato al 2021; i dati di questo campione vengono abbinati con alcune informazioni sulle retribuzioni e sulle ore contrattuali estratte dal campione di contratti che l’ISTAT utilizzava nel 2021 per la rilevazione mensile delle retribuzioni contrattuali.

Ad integrazione di tale quadro sintetico, che non è esaustivo delle fonti statistiche ufficiali in materia di retribuzioni contrattuali ed è elaborato sulla base dei contributi forniti al

–             CNEL da INPS, ISTAT e Banca d’Italia, aggiungiamo che nel 2021 nel flusso informativo Uniemens erano presenti poco più di 400 contratti collettivi nazionali di lavoro, mentre oggi se ne contano circa 980 (il numero esatto varia e il CNEL registra e comunica tali variazioni mensilmente all’INPS).

Ancora viene evidenziato:

il mancato allineamento del sistema informativo Comunicazioni Obbligatorie del Ministero del Lavoro con il sistema della banca dati CNEL-INPS per quanto riguarda i “codici contratto” con particolare riferimento al pieno rispetto dei contenuti economici “complessivi” del contratto collettivo applicato anche in relazione al livello di inquadramento contrattuale;

– la non conoscibilità della reale applicazione di tutte le voci retributive oltre i minimi tabellari/paga base: quali voci retributive previste dai contratti collettivi concorrono cioè a definire il concetto di salario minimo adeguato previsto dalla direttiva europea anche in relazione alle operazioni giurisprudenziali relative alla estensione dei trattamenti retributivi previsti dalla contrattazione collettiva di livello nazionale;

– i criteri di applicazione del concetto di tasso di copertura posto che restano scoperti, rispetto ai flussi informativi, settori critici in materia di salari adeguati come il lavoro agricolo e il lavoro domestico ovvero modelli di organizzazione del lavoro che comportano l’applicazione di contratti collettivi diversi da quello del settore di appartenenza come nel caso degli appalti di servizi e dei contratti di concessione come nel caso del franchising;

– i criteri di applicazione del concetto di tasso di copertura segnalano infine, per l’Italia, la criticità del fenomeno della c.d. parasubordinazione e l’abuso dei tirocini formativi c.d. extracontrattuali e cioè aree di lavoro non subordinato che  fuoriescono formalmente dal campo di applicazione della contrattazione collettiva per effetto di prassi contrattuali poco o nulla trasparenti e dove spesso è possibile rinvenire fenomeni elusivi delle tutele di legge e di contratto collettivo che, ovviamente, assumono una forma particolarmente marcata rispetto alle dimensioni patologiche del lavoro irregolare e della economia sommersa.

Eppure Le conclusioni alle quali si arriva è che il tasso di copertura dei contratti collettivi nazionali di lavoro è ben superiore all’80 %, con la sola esclusione del settore dell’agricoltura e del lavoro domestico Ma questo dato è credibile?

I dati a disposizione indicano, al riguardo, un tasso di copertura della contrattazione collettiva che si avvicina al 100 per cento: una percentuale di gran lunga superiore all’80 per \ (parametro della direttiva). Da qui la piena conformità dell’Italia ai due   principali vincoli stabiliti dalla direttiva europea e cioè l’assenza di obblighi di introdurre un piano di azione a sostegno della contrattazione collettiva ovvero una tariffa di legge.

4) Il ritardo nei rinnovi della contrattazione collettiva

Al 1° settembre 2023 risulta che al 54 per cento dei lavoratori dipendenti del settore privato si applicano contratti collettivi nazionali di lavoro che, fatte salve le precisazioni che seguono, sono tecnicamente scaduti.

Sempre con esclusione dei lavoratori dei settori contrattuali “agricoltura” e “lavoro domestico”, perché i contratti collettivi nazionali di lavoro di questi settori non sono rilevati oppure sono parzialmente rilevati nel flusso Uniemens;

Non sempre ritardo è sinonimo di non adeguatezza del salario o di assenza di meccanismi   di vacanza contrattuale, concessioni una tantum (si pensi al rinnovo del contratto del terziario dove sono state introdotte misure “ponte” che risolvono il problema almeno per tutto il 2023), ovvero meccanismi di adeguamento all’andamento della inflazione che, in effetti, sono presenti in numerosi contratti collettivi nazionali di lavoro.

5) l’esistenza dei “contratti pirata”

Con una espressione divenuta patrimonio del linguaggio corrente il concetto di contratto “pirata” intende essenzialmente indicare i contratti sottoscritti da organizzazioni datoriali e sindacali poco rappresentative o addirittura sconosciute, che contengono condizioni economiche e clausole normative peggiorative per i lavoratori e per le dinamiche della concorrenza tra le imprese rispetto ai contratti collettivi qualificati dalla rappresentatività dei soggetti firmatari.

L’espressione, per quanto efficace sul piano della comunicazione pubblica, è allo stato oggetto di controversie. Seppure il tema sia stato ripetutamente posto alla attenzione della Commissione dell’informazione competente, non si dispone ancora di criteri condivisi dalle forze sociali presenti al CNEL per classificare un contratto collettivo, regolarmente depositato, come “pirata” o “non pirata”.

Dall’archivio nazionale dei contratti collettivi depositati al CNEL è tuttavia possibile conoscere i seguenti elementi:

le categorie che aderiscono a CGIL, CISL, UIL firmano 211 contratti collettivi nazionali di lavoro, che coprono 13.364.336 lavoratori dipendenti del settore privato (sempre con eccezione di agricoltura e lavoro domestico); gli stessi rappresentano il 96,5 per cento dei dipendenti dei quali conosciamo il contratto applicato, oppure il 92 per cento del totale dei dipendenti tracciati nel flusso Uniemens. I sindacati non rappresentati al CNEL al momento attuale (X consiliatura) firmano 353 CCNL che coprono 54.220 lavoratori dipendenti, pari allo 0,4 per cento dei lavoratori di cui è noto il CCNL applicato.

Come abbiamo visto il CNEL evidenzia delle criticità nello strumento della contrattazione collettiva eppure le stesse non sono considerate tali da indurre all’adozione del salario minimo

Di fatto si riconosce all’autonomia collettiva un ruolo di concreta determinazione della retribuzione equa ex art. 36 Cost. anche se resta sul tavolo un quesito irrisolto: perché accade che contratti stipulati da sindacati confederali fissino retribuzioni minime talmente basse da indurre i giudici a rompere la tradizionale riserva riconosciuta nei confronti dell’autonomia collettiva, riaffermando l’inesistenza di una riserva a favore di quest’ultima in materia salariale?

Appare evidente il cortocircuito che si viene a creare. Se da un lato infatti si chiede maggiore attenzione alla parte sindacale nell’esercizio del potere di contrattazione collettiva, invocando l’utilizzo di una contrattazione collettiva di qualità, dall’altro appare evidente la difficoltà del raggiungimento di tale risultato, perlomeno nei tempi brevi, tempi brevi che sono oggi necessari a causa della forte spinta inflazionistica.

Da parte sindacale infatti non si registra uno sforzo organizzativo e concettuale, che la situazione contingente imporrebbe, sul piano della contrattazione di qualità, né una reazione all’opera di demolizione iniziata dalla Giurisprudenza della “riserva naturale” da sempre alla stessa parte sindacale riconosciuta in ambito di contrattazione collettiva nella fissazione delle tabelle salariali. I motivi di tale inerzia sono forse da attribuirsi alla difficoltà delle organizzazioni sindacali, ancora strutturate con organigrammi desueti, di adeguarsi ai repentini cambiamenti del mercato del lavoro, ma anche alla storica mancanza di specifiche disposizioni di legge sulla rappresentatività sindacale, peraltro dagli stessi sindacati da sempre osteggiate, che non ha e non può avere efficacia erga omnes se non in via fattuale e relativamente a determinati settori produttivi. In tale contesto tutta l’area del cosiddetto “lavoro povero o debole”, in forte crescita, cioè quel lavoro che sfugge da qualsiasi contrattazione collettiva, resta di fatto privo di qualsiasi tutela.

Resta non sciolto il nodo delle Associazioni datoriali grandi assenti in questo dibattito.

La contrattazione collettiva è la sintesi anche delle istanze che provengono da parte datoriale. E’ facile immaginare che un contratto collettivo nazionale, che prevede il pagamento di una retribuzione oraria lorda di poco superiore a quattro euro, sia il figlio di un mercato degli appalti povero dove anche le istanze degli imprenditori hanno avuto un grande peso. Il contratto collettivo non genera ricchezza ma semmai la redistribuisce e non è altro che uno strumento di composizione del conflitto d’interessi di categoria sul tema più rilevante del diritto del lavoro che è quello della retribuzione.

Ecco perché l’intervento del giudice che fissa la retribuzione su criteri differenti da quelli della contrattazione collettiva ha un effetto dirompente sulle dinamiche del mercato produttivo   

Potrà verificarsi un aumento del contenzioso che fino ad oggi si è limitato al settore della vigilanza privata  che ad oggi per la verità non c’è stato ma che potrà sconfinare in altri settori.

Da un altro lato è  prevedibile la frammentazione delle decisioni circa il salario equo in considerazione della possibilità del Giudice di vagliare altri e differenti parametri diversi da quelli individuati dai contratti collettivi dei settori affini. Potrà quindi accadere che ogni Giudice monocratico, in ogni diverso Tribunale italiano, individuerà i parametri della retribuzione con le inevitabili influenze del contesto sociale ed economico e, sia consentito,  anche politico, della realtà nella quale vive. Le conseguenze di tali condizioni potrebbero produrre decisioni “a macchia di leopardo” con conseguente incertezza sulla “tenuta” della retribuzione erogata e situazioni di disparità sul territorio, in danno della libera concorrenza e della libertà di gestione dell’impresa.

Peraltro, la natura negoziale del contratto collettivo – sostanziandosi esso in un accordo tra due o più parti, basato su un meccanismo di reciproche concessioni – è il motivo per cui, sovente, lo stesso può rivelarsi uno strumento imperfetto ovvero inefficace ai fini della determinazione di una retribuzione che sia proporzionata alla qualità e quantità del lavoro svolto nonché sufficiente ad assicurare alla lavoratrice/al lavoratore un’esistenza libera e dignitosa (art. 36 Cost.), a seconda dell’evolversi del contesto economico di riferimento.

Forse il problema risiede nel fatto che oggi contiamo ben 946 contratti collettivi – i perimetri negoziali si sono ormai frantumati e più contratti collettivi – che tendono a disciplinare mansioni del tutto affini tra loro, se non addirittura identiche.

Per tornare alla fattispecie che ci occupa dei “servizi fiduciari” (i.e.: portierato, custodia e control room), la  disciplina è contesa da tre CCNL:

la Sezione Servizi Fiduciari del CCNL Vigilanza Privata,

il CCNL Proprietari di Fabbricati

il CCNL Multiservizi.

Ciascuno di questi contratti collettivi, ancorché stipulato da Sigle Sindacali comparativamente più rappresentative, prevede, però, un trattamento retributivo sempre diverso;

Abbiamo visto commentando la Sentenza della Cassazione 27711/2023 che questa situazione di frammentazione ha prodotto la conseguenza che il susseguirsi di diversi contratti collettivi ha fatto sì che un lavoratore – adibito in regime di appalto – percepisse, in seguito a ciascun cambio di gestione, un trattamento retributivo via via sempre minore (da ultimo, quello del CCNL Vigilanza Privata – Sezione Servizi Fiduciari), pur essendo egli chiamato a svolgere sempre le medesime mansioni.

Inquadrato il problema resta, comunque, la necessità di come risolverlo, se tramite intervento legislativo, ovvero tramite il perdurante ricorso alla c.d. “equità giudiziale ex art. 2099 c.c.”. Con l’ulteriore precisazione che un intervento legislativo – pure oggi sollecitato da più correnti politiche – potrebbe anche non avere ad oggetto l’introduzione nuda e cruda di una tariffa oraria universale, limitandosi a incentivare una contrattazione collettiva che sia effettivamente leader o, meglio, rappresentativa ex art. 39, comma 4, Cost.

Il tema in commento viene lasciato volutamente aperto, con il solo auspicio che visioni parcellizzate e atomistiche di tali “questioni salariali” (il plurale è da preferirsi al singolare, stante la complessità e le molteplici sfaccettature) cedano il passo a un approccio più sistematico, unico veicolo con cui validamente perorare ogni soluzione del caso, qualunque essa sia.

L’Avvocato Andrea Dedoni, è nato a Carbonia il 30 Settembre 1964 ed è iscritto all’albo degli Avvocati della provincia di Cagliari dal 1997.
E’ il titolare dello studio legale Dedoni , coordina, organizza e supervisiona il lavoro di tutti i collaboratori dello studio .

Le competenze dell’Avvocato Dedoni sono il Diritto del Lavoro, il Diritto Civile ed il Diritto Fallimentare. Vanta un’esperienza trentennale nella gestione dei rapporti di lavoro e nel contenzioso nel lavoro: è socio dell’Associazione Giuslavoristi Italiani e dell’Associazione Giuslavoristi Sardi.