Per chi si occupa di diritto del lavoro e, soprattutto, di contenzioso nel diritto del lavoro, la riforma Cartabia (dlgs 149/2022) ed il suo correttivo hanno avuto un impatto importante non tanto nell’ambito del rito processuale che è rimasto sostanzialmente invariato se non con alcune modifiche inerenti il rito del lavoro in caso di licenziamenti ove si richiede la reintegra, licenziamenti del socio lavoratore di cooperative e di licenziamenti discriminatori (art. 441 bis e s.s.) la redazione del ricorso in appello e più in generale con riferimento al procedimento nanti la Corte di Cassazione, quanto piuttosto e personalmente affermerei finalmente, l’avere nuovamente reintrodotto anche nelle controversie di lavoro l’istituto della negoziazione assistita.
L’avverbio “nuovamente” non è a caso perché la negoziazione assistita era stata già introdotta nel decreto legge n.132/2014 e, in particolare, all’art. 7 che interveniva aggiungendo espressamente all’art. 2113, ultimo comma c.c. la locuzione “o conclusa a seguito di una negoziazione assistita da un avvocato”.
Come noto l’art. 7 era stato poi abrogato in sede di conversione dalla L. n. 162/2014 a fronte della forte opposizione espressa da sindacati e CSM in relazione ai dubbi di legittimità costituzionale in ordine all’assenza di una vera e propria “sede protetta” come quelle individuate dall’art. 2113 c.c. nella sua ordinaria formulazione.
Con la riforma Cartabia, il legislatore ha dunque deciso di reintrodurre la facoltà di accedere alla negoziazione assistita anche con riferimento alle controversie di lavoro o, per meglio dire, le controversie di cui all’art. 409 c.p.c.
La precisazione è importante, perché, ad esempio, è da ritenersi che non possano essere oggetto di negoziazione assistita le controversie con l’INPS, l’INAIL e gli altri Enti previdenziali relativamente a obblighi contributivi e prestazioni previdenziali e/o assicurative in quanto, le stesse sono regolate dall’art. 442 c.p.c. il quale richiama il capo primo del titolo IV del codice di rito soltanto con riferimento al rito processuale, e fatte salve le precisazioni in punto di condizioni di procedibilità e di competenza territoriale introdotte dalle norme successive.
La scelta è peraltro finanche corretta, perché rispettosa del generale principio dell’indisponibilità dei diritti connessi alla contribuzione previdenziale e assicurativa.
Peraltro, la novella non è intervenuta direttamente sull’art. 2113 c.c. ma, piuttosto, introducendo, all’art. 2 ter il quale, con una formulazione poco felice, al comma 2, prevede che “all’accordo raggiunto all’esito della procedura di negoziazione assistita si applica l’art. 2113 c.c., quarto comma, del codice civile”.
Ebbene, l’art. 2113 c.c., al comma 4 prevede l’inoppugnabilità delle rinunce e delle transazioni allorquando queste siano intervenute ai sensi dell’art. 185, 410, 411, 412 ter e 412 quater del codice di procedura civile.
Ci si riferisce alle conciliazioni giudiziali, quelle nanti le commissioni provinciali per i rapporti di lavoro, nanti l’Ispettorato del Lavoro nelle forme di cui all’art. 11 e 12 d.lgs. n. 124/2024 (cd monocratiche), nonché quelle concluse nell’ambito dei procedimenti arbitrali e nelle conciliazioni sindacali previste dalla contrattazione collettiva.
Come potrà agevolmente rilevarsi, le ipotesi di conciliazione regolate dal Codice di procedura civile e dal codice civile hanno tutte il minimo comun denominatore della cd “sede protetta”, ovvero di un luogo presieduto da un soggetto terzo che riveste la posizione di garante di legittimità e, soprattutto, di assistenza del lavoratore che è la parte debole del rapporto di lavoro.
Orbene, la negoziazione assistita, che invece si fonda esclusivamente sul rapporto diretto tra le parti (ovvero lavoratore e datore di lavoro) mediato unicamente dai rispettivi Avvocati e, al più, dai consulenti del lavoro rispettivamente nominati, non prevede alcuna sede e, soprattutto, alcun organo terzo che dovrebbe garantire, secondo la giurisprudenza, l’assistenza al lavoratore e un vaglio di legittimità delle pattuizioni che le parti intendono assumere.
Ebbene, la tecnica di redazione della norma scelta da parte del legislatore ha ingenerato e verosimilmente ingenererà, anche alla luce delle ultime sentenze della Corte di Cassazione, numerose questioni in ordine al senso della disposizione.
Secondo alcuni commentatori, partendo dal mero dato letterale, il quarto comma dell’art. 2113 c.c. laconicamente richiamato dall’art. 2 ter del DL 133, precisa semplicemente che il predetto art. 2113 c.c., ovvero la nullità delle rinunzie e transazioni aventi ad oggetto i diritti del prestatore di lavoro, non trova applicazione alle rinunce e transazioni concluse nelle modalità previste dal codice di rito.
Pertanto, il combinato disposto delle due disposizioni imporrebbe comunque che l’accordo di negoziazione assistita vada per così dire “ratificato” nelle sedi di cui all’art. 2113 c. 4 c.c., al fine di poter mutuare il carattere dell’inoppugnabilità.
Ma è evidente che l’intento del legislatore non è quello di imporre anche alla negoziazione assistita la formalità della “sede protetta” ma, piuttosto, di estendere l’inoppugnabilità delle rinunce e transazioni trasfuse di cui all’art. 2113 c.c. c. 4 all’accordo di negoziazione.
Diversamente opinando si renderebbe uno strumento come la negoziazione assistita di difficile utilità, atteso che costituirebbe un inutile appesantimento di un’attività di concertazione che già nella prassi avviene e che vede come ultimo momento la formalizzazione dell’accordo in sede conciliativa.
Fatte tali premesse generali, la riforma Cartabia è intervenuta sull’istituto in materia incisiva, introducendo per la prima volta nell’ordinamento italiano la possibilità di ricorrere all’istituto di matrice anglosassone del pretrial discovery, ovvero la possibilità di assumere anticipatamente le dichiarazioni testimoniali nonché quelle provenienti dalle parti, al fine di consentirne la valutazione nell’ambito della trattativa di componimento bonario della lite e prima dell’inizio del giudizio.
In questo senso il legislatore ha altresì previsto la possibilità per le parti non solo di produrre in giudizio le dichiarazioni assunte nel corso della procedura ma altresì di chiedere in ogni caso l’audizione dei soggetti terzi sia a conferma delle dichiarazioni rese nell’ambito del procedimento di mediazione sia nel caso in cui questi si siano astenuti o abbiano rifiutato di rispondere.
Detto istituto, che è regolato dal comma 2 bis di cui all’art. 2, e dall’art. 4 bis del DL 133/2014 ed è soggetto all’accordo delle parti da esplicitarsi in sede di convenzione di negoziazione.
La prima particolarità che si può rilevare è certamente la diversità di approccio del legislatore rispetto alla prova testimoniale assunta nel processo civile.
Mentre nel processo civile le parti indicano anticipatamente le circostanze oggetto della futura prova testimoniale, capitolandole anticipatamente di modo da consentire un vaglio di ammissibilità e rilevanza demandato normalmente al Giudice, nel caso della negoziazione assistita, tale modalità non è prevista.
E’ pur vero però che l’art. 4 bis prevede che le dichiarazioni devono vertere “su fatti specificamente individuati e rilevanti in relazione all’oggetto della controversia” ma sembra non imporre che le circostanze debbano essere individuate anticipatamente rispetto al momento dell’assunzione delle dichiarazioni da parte di terzi.
Sotto questo profilo, ad esempio, si segnala che lo stesso schema di convenzione di negoziazione assistita licenziato dal CNF nulla dice in ordine alla necessità di una preventiva capitolazione delle prove orali sul punto.
Quando parlo di “prove orali” non lo faccio in senso atecnico, perché il legislatore attribuisce alle dichiarazioni assunte in sede di negoziazione assistita due importanti aspetti:
innanzitutto attribuisce il valore di prova fidefacente alle dichiarazioni che gli avvocati attestano essere state assunte alla loro presenza, in maniera non dissimile a quanto accade ai verbali contenenti le dichiarazioni redatti dagli Ispettori del Lavoro
in secondo luogo, richiama l’art. 116, comma primo cpc in ordine alla valutazione del contenuto delle dichiarazioni.
E’ da ritenersi che nulla vieti, per evitare contestazioni in sede di acquisizione delle dichiarazioni, che le parti che intendano avvalersi di tale strumento, bene farebbero a concordare preventivamente e già in sede di negoziazione assistita i fatti oggetto dell’assunzione delle dichiarazioni e ciò secondo i criteri già ben individuati dalla giurisprudenza in ordine alla rilevanza e ammissibilità delle prove testimoniali secondo le norme del codice di rito che non serve richiamare alla platea.
Il legislatore si sofferma in realtà più sul momento dell’acquisizione della dichiarazione che sulla fase precedente di individuazione dei fatti oggetto di prova.
In particolare è previsto che l’audizione debba avvenire alla presenza degli Avvocati delle parti presso lo studio di uno dei due o presso il Consiglio dell’Ordine e che debba essere redatto un documento nel quale devono essere riportate espressamente le generalità dell’informatore e degli avvocati, con l’indicazione del luogo e della data dove sono acquisite le dichiarazioni nonché l’attestazione degli avvertimenti di cui all’art. 4 bis c. 2 e segnatamente l’indicazione della sussistenza o meno di rapporti di parentela o interessi nella controversia, nonché della qualifica dei soggetti dinanzi ai quali rende le dichiarazioni e lo scopo dell’acquisizione, della facoltà di non rendere dichiarazioni, della facoltà di astensione di cui all’art. 249 c.p.c. nei casi previsti dagli artt. 200, 201 e 202 c.p.p., delle responsabilità penali conseguenti alle false dichiarazioni, del dovere di mantenere riservate le domande e le risposte nonché delle modalità di acquisizione e documentazione delle dichiarazioni.
Si segnala che il legislatore ha distinto le ipotesi dell’astensione rispetto a quelle del rifiuto di rendere dichiarazioni, nel senso che l’informatore può sempre rifiutarsi di rispondere senza che per ciò incorra in qualsivoglia sanzione, fatto salvo il caso in cui si incorra nelle ipotesi di astensione legislativamente previste.
L’audizione, come detto, deve essere trasfusa in documento scritto con i caratteri di cui si è detto, redatto almeno in triplice copia, una per ogni parte e una per l’informatore e deve essere sottoscritto da quest’ultimo e per autentica dagli avvocati.
Il legislatore introduce altresì uno strumento non dissimile all’interrogatorio formale della parte, prevedendo però esclusivamente la forma scritta della dichiarazione su circostanze stavolta sì preventivamente individuate atteso che deve esserne fatto espresso invito da parte dell’Avvocato che assiste la parte avversa.
La dichiarazione è sottoscritta dalla parte e dall’Avvocato che la assiste ai fini della certificazione dell’autografia. Il documento può essere prodotto in giudizio ed ha gli effetti della confessione stragiudiziale di cui all’art. 2735 c.c.
Il giudice può valutare ai sensi dell’art. 96 c.p.c. e delle spese di giudizio il rifiuto ingiustificato a rendere le dichiarazioni.
E’ interessante la disparità di trattamento tra il rifiuto ingiustificato in sede di negoziazione assistita rispetto al rifiuto di rispondere all’interrogatorio formale.
Ed infatti non vi è chi non vede che nel secondo caso, la sanzione è quella di cui all’art. 231 c.p.c. che consente al Giudice di dare per ammessi i fatti oggetto dell’interrogatorio formale, ma con il limite della valutazione del più generale compendio probatorio acquisito, e, dunque, se da tale valutazione emerge una verità processuale comunque difforme dai fatti addotti e oggetto dell’omesso interrogatorio formale, il giudice può non tenerne conto.
Differentemente, l’ingiustificato rifiuto in sede di negoziazione assistita, comporta un’eventuale responsabilità ai sensi dell’art. 96 c.p.c. e ai fini della liquidazione delle spese processuali che, evidentemente, rischia di essere ben più pregiudizievole per la parte in quanto fonte di autonome responsabilità che prescindono dall’esito del futuro contenzioso.
Ulteriore profilo di novità particolarmente interessante e vantaggioso per la negoziazione assistita, in attesa che venga definitivamente approvato il nuovo DDL Lavoro, è la possibilità che essa possa svolgersi in modalità telematica e con collegamenti da remoto.
Occorre subito sgombrare il campo dal fatto che il legislatore non consente né sembra consentire lo svolgimento di attività asincrone se non con esclusivo riferimento alle fasi di sottoscrizione della convenzione di negoziazione assistita e dell’accordo di negoziazione e ciò soltanto nell’ipotesi in cui si opti appunto per la modalità telematica.
E’ ammessa la sottoscrizione della parte in modalità analogica ma è altresì richiesta la firma digitale per autentica.
Come detto, non è ammesso lo svolgimento di attività asincrone mentre, per quanto riguarda i collegamenti da remoto, non sono ammessi nell’ipotesi di acquisizione delle dichiarazioni ex art. 4 bis DL 133/2014.
Quanto al testo dell’accordo, il legislatore nulla dice e, dunque, la forma è sostanzialmente quella che normalmente si utilizza nelle conciliazioni sindacali o in quelle nanti il Giudice del Lavoro o all’Ispettorato avendo cura, a mio avviso, di indicare sempre e comunque l’oggetto della controversia che ci sia avvia a conciliare e, almeno sommariamente, le fasi che hanno preceduto la conclusione del predetto accordo.
Sono però necessari una serie di elementi “formali”:
– la sottoscrizione delle parti e degli avvocati che le assistono;
– L’indicazione del valore della controversia;
– La certificazione da parte degli Avvocati sottoscrittori delle firme e della conformità dell’accordo alle norme imperative e all’ordine pubblico
Il legislatore pare non imporre tali elementi a pena di nullità dell’accordo ma vi sono alcune sentenze di merito che ritengono gli accordi conclusi in assenza di tali formule inidonei, ad esempio, a costituire titolo esecutivo.
Il procedimento di negoziazione deve avere una durata non inferiore a un mese decorrente dalla data di sottoscrizione della convenzione di negoziazione e non superiore a tre mesi, fatta salva la possibilità di proroga di ulteriori trenta giorni su accordo delle parti.
Il mancato accordo deve risultare in apposita dichiarazione sottoscritta dalle parti.
Il mancato accordo è, a parere di chi scrive, conseguenza pure tacita per il caso del superamento del termine di tre mesi di durata massima sopra indicato.
Le conseguenze della mancata adesione alla negoziazione assistita sono quelle generalmente previste nelle altre ipotesi, ovvero la possibilità per il giudice di valutare il comportamento ai fini della concessione della clausola di provvisoria esecutorietà ex art. 642 c.p.c. e ai fini della responsabilità ex art. 96 c.p.c.
E’ altresì previsto il divieto di impugnare il verbale per gli Avvocati che hanno partecipato e sottoscritto l’accordo all’esito della negoziazione assistita.
L’accordo deve essere trasmesso, a mezzo PEC, entro dieci giorni dalla sottoscrizione, a una delle Commissioni di certificazione ex art. 76 d.lgs. n. 276/2003 nonché al Collegio dell’Ordine di iscrizione.
Deve rilevarsi che alla violazione di tali obblighi di comunicazioni non sono riconnesse delle sanzioni in ordine alla validità o efficacia dell’accordo.
Infine a mente dell’art. 5, l’accordo raggiunto all’esito della negoziazione assistita costituisce titolo esecutivo.
Sotto questo profilo è altresì previsto l’obbligo di trascrizione integrale dell’accordo nell’atto di precetto ex art. 480 c. 2 c.p.c.
Questa previsione è particolarmente felice perché risolve in radice il problema dell’ottenimento di eventuali copie conformi dell’accordo di conciliazione ai fini della notificazione del titolo esecutivo. Si ritiene, dunque, che non sia necessaria la notificazione anche dell’accordo unitamente all’atto di precetto proprio per l’espressa previsione dell’indicazione del contenuto all’interno dell’atto di precetto.
In ogni caso, ai fini dell’attestazione della conformità degli atti e per l’estrazione di copia può farsi applicazione degli artt. 196 decies e 196 undecies delle disposizioni attuative del codice di procedura civile anche per il caso di esibizione dei titoli all’ufficiale giudiziario nell’ambito delle procedure esecutive.
Anche alla negoziazione assistita in materia di lavoro si applica l’art. 8 in materia di prescrizione e decadenza.
In particolare la norma prevede che dalla comunicazione dell’invito a concludere una convenzione di negoziazione assistita ovvero dalla sottoscrizione della convenzione stessa si producono sulla prescrizione gli effetti della domanda giudiziale.
Orbene, la norma non specifica quali effetti della domanda giudiziale si estendano all’ipotesi di cui si discute.
Certamente non può dubitarsi in ordine all’interruzione della prescrizione a seguito della comunicazione dell’invito a concludere la convenzione o dalla sottoscrizione della convenzione stessa ai sensi dell’art. 2943 c. 1 e 2945 c. 1 c.c.
Ci si è interrogati invece sull’applicabilità degli altri commi dell’art. 2945 c.c., ovvero se alla negoziazione assistita si applica la fattispecie dell’interruzione con decorrenza dei termini differita al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio.
Sul punto deve osservarsi che un orientamento giurisprudenziale (Tribunale di Rieti 7 settembre 2023) a oggi solo di merito ritiene applicabile esclusivamente il primo comma dell’art. 2945 c.c. senza però ben precisare il percorso logico argomentativo sul punto. E’ bene però precisare che nel caso osservato dal Tribunale di Salerno si discuteva di una decorrenza del termine prescrizionale differita al momento della scadenza del termine di 30 giorni per la manifestazione della volontà di accedere alla procedura di negoziazione assistita.
L’art. 8 prevede altresì che dalla data della comunicazione di invito o dalla sottoscrizione della convenzione è impedita per una sola volta la decadenza, ma se l’invito è rifiutato o non è accettato entro il medesimo termine di decadenza decorrente dal rifiuto, la domanda giudiziale deve essere proposta entro il medesimo termine ovvero dalla dichiarazione di mancato accordo certificata dagli avvocati.
Detta norma dunque va coordinata con il compendio di norme giuslavoristiche che introducono decadenze e, in particolare, mi riferisco a quelle di cui all’art. 6 L. n. 604/1966, come modificata dagli artt. 31 e s.s. della L. n. 183/2010, o alle decadenze previste dal d.lgs. n. 81/2015 in materia di contratto a termine, etc.
Il legislatore fa un uso della decadenza e della disciplina che la regola abbastanza derogatorio rispetto alla disciplina generale di cui agli artt. 2964 del c.c.
Come sappiamo, infatti, a mente dell’art. 2967 c.c., l’impedimento della decadenza determina l’applicazione dei normali termini prescrizionali ai fini dell’esercizio dei diritti invocati. Per esempio, nel vecchio regime ante collegato lavoro, una volta impedita la decadenza con l’impugnazione stragiudiziale, l’azione doveva essere esercitata nel termine prescrizionale che poteva essere quinquennale nel caso di vizi comportanti l’annullamento dell’atto impugnato o sine die allorquando si faceva valere una nullità.
Invece l’art. 8 stabilisce che l’invio dell’invito a concludere la convenzione o la sottoscrizione della stessa impedisce per una sola volta il decorso della decadenza, ma se l’invio è rifiutato o non accettato entro il termine dei 30 giorni previsto dall’art. 4, c. 1, la domanda giudiziale deve essere proposta entro il medesimo termine di decadenza decorrente dal rifiuto, dalla mancata accettazione nel termine ovvero dalla dichiarazione di mancato accordo certificata dagli avvocati.
Secondo la Giurisprudenza, l’istituto introdotto dall’art. 8 funziona nel senso che “il legislatore con l’art. 8 in esame, derogando al principio di cui all’art. 2967 c.c., ha invece disposto che la decadenza non è impedita per sempre ma per una sola volta, col che, venuto meno l’impedimento, inizia a decorrere un nuovo termine…l’interpretazione qui privilegiata è la medesima fatta propria dalle Sezioni unite in fattispecie del tutto analoga e perfettamente sovrapponibile della mediazione avendo stabilito con Sentenza n. 17781/2023, in fattispecie di termine semestrale di decadenza, che la mediazione comunicata entro il termine….impedisce per una sola volta….la decadenza del diritto di agire….ponendo quest’ultimo essere esercitato, ove con il tentativo di conciliazione fallisca, entro il medesimo termine di sei mesi, decorrente ex novo dal deposito del verbale negativo….Nella trama argomentativa le Sezioni Unite evidenziano la coerenza della prescelta soluzione interpretativa rispetto agli obiettivi di deflazione del contenzioso giudiziario, che ispirano la disciplina della mediazione finalizzata alla conciliazione, riconducendo l’impedimento della decadenza come effetto una tantum e allo scopo di evitare il moltiplicarsi strumentale delle istanze volte a scongiurare la decadenza” (cfr ex multis Corte Appello Milano 341/2023)
Pertanto, il termine di decadenza decorre ex novo e per intero.
Il problema più evidente è di coordinamento tra le due norme. Come sappiamo, l’art. 6 impone che entro 180 giorni decorrenti dall’invio dell’impugnazione stragiudiziale, il lavoratore deve alternativamente depositare il ricorso in tribunale o proporre il tentativo di conciliazione ex art. 410 c.p.c.
Ipotizziamo dunque il caso in cui, dopo avere impugnato stragiudizialmente il licenziamento o, ad esempio, il termine apposto al contratto a tempo determinato, piuttosto che la somministrazione, l’Avvocato del lavoratore invii la comunicazione di invito a concludere la convenzione il 180° giorno.
Applicandosi l’art. 8 DL 133/2014, la decadenza del termine di impugnazione previsto dall’art. 6 risulterebbe evidentemente impedita e ciò fino alla scadenza del termine per l’accettazione dell’invito, dell’esplicito rifiuto all’invito anche se comunicato anticipatamente o fino alla data della dichiarazione di mancato accordo certificata dagli avvocati.
Ma cosa succede al termine di impugnazione una volta verificatisi questi accadimenti?L’art. 8 afferma che “la domanda giudiziale deve essere proposta entro il medesimo termine di decadenza”.
Secondo la giurisprudenza formatasi in materia di negoziazione che abbiamo richiamato, il termine di 180 giorni decorrerebbe ex novo.
Ulteriore problema è che l’art. 8 prescrive che entro il termine decadenziale debba essere proposta la domanda giudiziale, senza però considerare che l’art. 6 L. n. 604/1966 prevede che nel termine di 180 giorni debba essere proposta o la domanda giudiziale oppure il tentativo di conciliazione ex art. 410 c.p.c., con le conseguenti sospensioni previste dalla norma.
Pertanto, il ricorso all’istituto impeditivo della decadenza di cui all’art. 8 DL 133, che impone l’esperimento della domanda giudiziale ai fini dell’impedimento della decadenza che decorre ex novo, esclude la possibilità di ricorrere all’ulteriore tentativo di conciliazione ex art. 410 c.p.c., previsto dall’art. 6 L. n. 604/1966?
Sul punto non si rinvengono precedenti giurisprudenziali specifici ma i commentatori si sono divisi ragionando sui criteri di interpretazione della successione di leggi nel tempo.
Pertanto, alcuni ritengono debba applicarsi il generale criterio temporale, per cui essendo l’art. 8 DL 133 introdotto successivamente alla modifica del collegato lavoro, allorquando il lavoratore, nel termine dei 180 giorni, opti per la negoziazione assistita, la disciplina sarà quella regolata dal combinato disposto di tale disposizione con quella dell’art. 6 L. n. 604, per cui soltanto la domanda giudiziale impedirà definitivamente la decadenza.
Altri, invece, ritengono che debba prevalere il criterio della lex specialis/lex generalis e, dunque, l’art. 8 non dovrebbe trovare alcuna applicazione all’ipotesi de qua in quanto è l’art. 6 ad essere lex specialis.
A parere di chi scrive, quest’ultima interpretazione parte da un’inversione dei termini di paragone, atteso che la norma “speciale” nel caso di specie non è quella di cui all’art. 6 L. 604/1966, che invece disciplina tutte le ipotesi di impugnazione di licenziamento illegittimo e/o invalido (escluso il licenziamento orale, qualificato come inesistente e quindi estraneo al termine di decadenza), ma piuttosto l’art. 8, che invece determina una disciplina speciale in ordine all’impedimento della decadenza che decorre ex novo per effetto del rifiuto o del mancato accordo.
In tale specifico e speciale caso, è solo la domanda giudiziale che impedisce il decorso dei 180 giorni, non potendosi fare ricorso all’ulteriore ipotesi dell’istanza di conciliazione ex art. 410 c.p.c., prevista dall’art. 6 L. n. 604/1966.
Infine, un brevissimo cenno al fatto che la negoziazione assistita tra avvocati è ammessa all’istituto del gratuito patrocinio. La disciplina è sostanzialmente coincidente con quella prevista per l’accesso ai fini della rappresentanza in giudizio ma, con due particolarità.
La prima e più importante è che il compenso è liquidabile a spese dello stato solo nel caso in cui si sia raggiunto un accordo.
La seconda è che, per effetto del Decreto del Ministero della Giustizia del 1.8.2023, il compenso è liquidato nella misura prevista dall’art. 20 c. 1 bis del DM 55/2014, ridotto della metà.
La domanda si propone con istanza al Consiglio dell’Ordine del luogo in cui ha sede il Tribunale competente a conoscere la controversia, il quale si pronuncia entro 20 giorni, ammettendo l’istante in via anticipata e provvisoria. L’istanza deve contenere, oltre alle generalità della parte, anche la sommaria esposizione dei motivi in fatto e in diritto ai fini di valutarne la non manifesta infondatezza.
Avverso il provvedimento di diniego è ammesso ricorso entro il termine di 20 giorni nanti il Presidente del Tribunale del luogo in cui ha sede il Consiglio dell’Ordine che ha adottato il provvedimento.
Concluso l’accordo, l’avvocato deve proporre istanza di conferma dell’autorizzazione, allegando la copia dell’accordo e la parcella su cui il Consiglio emette visto di congruità in ragione al valore dell’accordo indicato ai sensi dell’art. 5 c. 1 bis DL 133/2014 e provvedimento di conferma da trasmettersi al Ministero della Giustizia perché provveda alle verifiche ritenute necessarie, che sono regolate dal citato Decreto Ministeriale del 1 agosto 2023, a cui per completezza si rimanda.
Gli avvocati dello Studio Legale Dedoni sono a disposizione per fornire assistenza ai lavoratori e alle aziende nell’ambito al fine di individuare le soluzioni conciliative alternative ad eventuali contenziosi giudiziari.
L’avvocato Ivano Veroni collabora con lo studio Dedoni dall’anno 2011.
Durante l’esercizio della professione, l’Avvocato Veroni ha maturato specifiche competenze nel settore del Diritto del Lavoro e del Diritto Amministrativo.
E’ docente di diritto del lavoro per l’ANCI Sardegna e per l’IFEL.
Nell’anno 2022 ha ricoperto il ruolo di componente della Sottocommissione per la formazione in diritto del lavoro nel Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Cagliari ed è relatore in materia di diritto del lavoro nei convegni organizzati dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Cagliari.