L’equiparazione tra lavoratore portatore di handicap e il lavoratore che assiste un familiare portatore di handicap
Con la sentenza del 20 maggio 2024 n. 13934, la Corte di Cassazione ha ritenuto meritevole di reintegra e risarcimento fino a dodici mensilità, la lavoratrice beneficiaria della L.104/1992 perché assisteva il proprio coniuge portatore di handicap, illegittimamente licenziata per non aver accettato il trasferimento.
Il divieto di discriminazione non è limitato ai soli lavoratori disabili, ma include anche coloro che assistono familiari disabili, questo è il principio adottato dalla Suprema corte nella pronuncia sopra richiamata nel recepire l’interpretazione della Corte di Giustizia Europea della direttiva del Consiglio in data 27 novembre 2000 C-2000/78/Ce.
Il licenziamento è pertanto discriminatorio se il datore di lavoro non tiene conto dello stato di caregiver del lavoratore e, equiparandolo in toto agli altri lavoratori, omette di proporre soluzioni “personalizzate ed alternative” volte a contemperare le legittime esigenze aziendali con il diritto all’assistenza
Illegittimo il licenziamento della dipendente che rifiuta il trasferimento per assistere un familiare portatore di handicap.
La vicenda.
Nel giudizio di impugnazione di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo di una dipendente che beneficiava dei permessi di cui alla l. n. 104/1992 per assistere il marito disabile grave, la Corte di cassazione ha annullato la sentenza della Corte d’appello per non aver tenuto conto, nella valutazione della fattispecie, della disciplina antidiscriminatoria di cui al D. Lgs. n. 216/2003.
In proposito, la Corte rileva anzitutto che nel testo di tale decreto la condizione di handicap non è tutelata con esclusivo riferimento al lavoratore disabile, ma la tutela si estende anche a coloro che per legge lo assistono, costituendo tale situazione un fattore di rischio di discriminazione in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.
Secondo i Giudici della Corte di Cassazione, la lavoratrice, che era stata licenziata dopo aver rifiutato, a differenza dei suoi colleghi di lavoro, il trasferimento presso una sede lontana dalla residenza del coniuge disabile, deve limitarsi a provare l’esistenza del fattore di rischio e prospettare al datore di lavoro una serie di possibili alternative come, per esempio, la possibilità di essere trasferita in una sede più vicina. Né vale il fatto che gli altri lavoratori coinvolti nel trasferimento lo avevano accettato e per questa ragione non erano stati licenziati.
Le ragioni della decisione.
Se il datore di lavoro adotta nei confronti di un lavoratore non disabile, bensì titolare di permessi per assistenza previsti dall’art. 33 della legge 104/1992, un trattamento meno favorevole rispetto ad altri lavoratori ed emerge che tale trattamento è riconducibile alla disabilità del familiare assistito, si ricade nella fattispecie di “discriminazione diretta”.
La Cassazione sposa questo principio, che è frutto di una elaborazione acquisita da tempo dalla Corte di giustizia UE in materia di divieto di discriminazione diretta, affermando che è fattore di rischio la condizione del lavoratore che presta assistenza continuativa al disabile in situazione di gravità.
La Suprema Corte prende a riferimento la normativa nazionale sulla parità di trattamento, il Dlgs. 216/2003 di attuazione della direttiva 2000/78/CE e afferma che l’inclusione della “condizione di handicap” nell’elenco tassativo di fattori vietati di discriminazione non può essere ricondotto unicamente al lavoratore.
Il riferimento normativo va esteso alla persona che assiste il familiare in condizione di “handicap”, perché anche la situazione in cui versa il lavoratore caregiver integra gli estremi del fattore di rischio.
Per questi motivi, la lavoratrice che assisteva il marito disabile, ha visto la riforma della sentenza di secondo grado dichiarandosi illegittimo il licenziamento, non avendo il datore di lavoro, valutato soluzioni “personalizzate” e “alternative”, quali ad esempio il trasferimento in un luogo più vicino alla residenza della persona con disabilità al fine di contemperare le esigenze aziendali con quelle di cura.
Illegittimo il licenziamento della dipendente che rifiuta il trasferimento per assistere un familiare portatore di handicap: trasferimento del lavoratore caregiver: prevale la sede di prossimità
L’efficacia della tutela della persona con disabilità si realizza anche mediante la regolamentazione del contratto di lavoro in cui è parte il familiare della persona tutelata, in quanto il riconoscimento di diritti in capo al lavoratore è posto in funzione del diritto del congiunto con disabilità alle immutate condizioni di assistenza (v. Cass. n. 24015 del 2017, par. 26).
In base alla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, grava sul datore di lavoro del caregiver l’obbligo di adottare i ragionevoli accomodamenti anche nei confronti dello stesso, per garantire il principio della parità di trattamento nei confronti degli altri lavoratori, sul modello previsto per i disabili dalla citata Direttiva europea.
Secondo precedenti pronunce, infatti, è meritevole di tutela il diritto del lavoratore che assiste un disabile grave di scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio e può essere esercitato oltre che al momento dell’assunzione, anche nel corso del rapporto di lavoro (Cass. n. 21627 del 20 luglio 2023).
Ovviamente non si tratta di un diritto assoluto e resta sempre in capo al datore di lavoro l’onere di provare la oggettiva impossibilità di trasferire il lavoratore in una sede vicina.
Gli Avvocati dello Studio Dedoni sono a disposizione dei clienti per approfondire ogni singola posizione relazionata ai licenziamenti illegittimi per rifiuto di trasferimento da parte di persone che assistono familiari con disabilità.