La conciliazione Sindacale
Le conciliazioni in sede sindacale, di cui all’art. 411 u.c. c.p.c., costituiscono lo strumento deflattivo, sicuramente più veloce e maggiormente utilizzato. Forse troppo spesso in maniera troppo disinvolta, anche a causa del fatto che costituiscono la strada meno controllata ed alternativa alla rigidità delle altre conciliazioni in materia di lavoro. Penso all’ utilizzo dell’imputazione delle somme corrisposte quale risarcimento del danno in luogo di retribuzioni che consente di evitare l’imposizione contributiva o a quei licenziamenti che mascherano una risoluzione consensuale del rapporto di lavoro e sono utilizzati per permettere al lavoratore di fruire della NASPI.
L’art.19 del DDL approvato lo scorso 9 dicembre in senato metterà fine a quella che era diventata una prassi, laddove è previsto che l’assenza del lavoratore protratta per oltre 15 giorni darà facoltà al datore di lavoro di comunicare l’assenza che equivarrà ad una risoluzione “per volontà del lavoratore” con disapplicazione quindi delle norme sul licenziamento e/o le dimissioni e il mancato percepimento della NASPI.
Proprio perché tutti utilizziamo lo strumento della conciliazione in sede sindacale darò un taglio pratico al mio intervento ragionando insieme su come possa essere utilizzato lo strumento della conciliazione in sede sindacale limitandone i rischi di impugnazione alla luce della giurisprudenza di merito e soprattutto di legittimità che è stata spesso contrastante circa i requisiti che le conciliazioni in sede sindacale devono possedere per ottenere il passaporto della non impugnabilità.
Cominciamo dalla fine.
A distanza di pochi mesi l’una dall’altra, sono intervenute di recente due pronunce di Cassazione – giunte a conclusioni diametralmente opposte – che riguardano la sede in cui sia stato sottoscritto l’accordo conciliativo.
1) La prima pronuncia – ord.C.Cass n. 1975 del 18/01/2024
Per quello che qui interessa la lavoratrice aveva lamentato che il verbale di conciliazione in sede sindacale era invalido perché era stato sottoscritto non presso la sede del sindacato ma presso uno studio oculistico, seppure alla presenza di un conciliatore.
Lamentava anche che era stato erroneamente posto l’onere della prova circa l’invalidità della transazione in carico alla lavoratrice invece che al datore di lavoro.
La Cassazione, che ha rigettato il ricorso della lavoratrice e confermato la sentenza della corte d’appello, ha affermato:
circa il primo punto:
“La necessità che la conciliazione sindacale sia sottoscritta presso una sede sindacale non è un requisito formale, bensì funzionale ad assicurare al lavoratore la consapevolezza dell’atto dispositivo che sta per compiere e, quindi, ad assicurare che la conciliazione corrisponda ad una volontà non coartata, quindi genuina, del lavoratore. Pertanto, se tale consapevolezza risulti comunque acquisita, ad esempio attraverso le esaurienti spiegazioni date dal conciliatore sindacale incaricato anche dal lavoratore, lo scopo voluto dal legislatore e dalle parti collettive deve dirsi raggiunto. In tal caso la stipula del verbale di conciliazione in una sede diversa da quella sindacale (nella specie, presso uno studio oculistico: v. ricorso per cassazione, p. 12) non produce alcun effetto invalidante sulla transazione se il datore di lavoro prova che il dipendente ha avuto, grazie all’effettiva assistenza sindacale, piena consapevolezza delle dichiarazioni negoziali sottoscritte”
La sentenza ripropone il criterio della effettività dell’assistenza, sul quale tornerò in seguito, che è il centro della questione della validità delle conciliazioni sindacali come previste dal combinato disposto degli art. 2113 e 411.
circa il secondo punto:
Sul piano del riparto degli oneri probatori, la Cassazione afferma un principio che mi ha lasciato perplesso:
Se la conciliazione è stata conclusa nella sede “protetta”, allora la prova della piena consapevolezza dell’atto dispositivo può ritenersi in re ipsa o desumersi in via presuntiva e graverà sul lavoratore l’onere di provare che, ciononostante, egli non ha avuto effettiva assistenza sindacale.
Se invece la conciliazione è stata conclusa in una sede diversa, allora l’onere della prova grava sul datore di lavoro, il quale deve dimostrare che, nonostante la sede non “protetta”, il lavoratore, grazie all’effettiva assistenza sindacale, ha comunque avuto piena consapevolezza delle dichiarazioni negoziali sottoscritte.
Mi lascia perplesso perché attribuire ad una situazione di fatto la ripartizione dell’onere della prova non trova fondamento nelle comuni regole processuali, né si tratta dell’applicazione del criterio di vicinanza della prova. Nella prassi, la questione della validità dell’accordo ex art. 2113, comma 4 cc nasce principalmente, non quale azione immediatamente diretta a far valere l’invalidità del negozio abdicativo/transattivo, ma quale eccezione da parte del datore di lavoro chiamato in giudizio.
Nella maggior parte dei casi la transazione si pone come ostacolo alla domanda del lavoratore, vero oggetto del giudizio, avente ad oggetto un diritto derivante dal rapporto di lavoro.
La deduzione in giudizio dell’esistenza dell’accordo ex art. 2113 comma 4 cc ha quindi valore di fatto estintivo dell’altrui pretesa. Pertanto, una volta che il lavoratore ne avrà contestato la validità sarà onere del datore di lavoro quale parte resistente di provare la validità di tale accordo.
2) La seconda pronuncia – ord.C.Cass. n. 10065 del 15/04/2024 resa a distanza di tre mesi, affronta un caso perfettamente sovrapponibile a quello appena analizzato per giungere a conclusioni totalmente differenti.
Il caso di specie infatti riguarda una lavoratrice che aveva contestato la validità di un verbale di conciliazione sottoscritto alla presenza di un sindacalista ma presso la sede datoriale. Sia il Tribunale che la Corte d’Appello avevano rigettato il ricorso del datore di lavoro.
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso del datore di lavoro affermando:
affermando che: “La conciliazione in sede sindacale, ai sensi dell’art. 411, comma 3, c.p.c., non può essere validamente conclusa presso la sede aziendale, non potendo quest’ultima essere annoverata tra le sedi protette mancando del carattere di neutralità indispensabile a garantire, unitamente all’assistenza prestata dal rappresentante sindacale, la libera determinazione della volontà del lavoratore”.
Questo perché “Il legislatore ha ritenuto necessaria una forma peculiare di “protezione” del lavoratore, realizzata attraverso la previsione dell’invalidità delle rinunzie e transazioni aventi ad oggetto diritti inderogabili e l’introduzione di un termine di decadenza per l’impugnativa, così da riservare al lavoratore la possibilità di riflettere sulla convenienza dell’atto compiuto e di ricevere consigli al riguardo (così Cass. n. 11167 del 1991 in motivazione). Tale forma di protezione giuridica è non necessaria (art. 2113, ultimo comma c.c.) in presenza di adeguate garanzie costituite dall’intervento di organi pubblici qualificati, operanti in sedi cd. protette. Le disposizioni richiamate dall’ultimo comma dell’art. 2113 c.c. individuano quali sedi cd. protette, la sede giudiziale (artt. 185 e 420 c.p.c.), le commissioni di conciliazione presso la Direzione Provinciale del Lavoro, ora Ispettorato Nazionale del Lavoro (art. 410 e 411, commi 1 e 2, comma c.p.c.), le sedi sindacali (art. 411, comma 3, c.p.c.), oltre ai collegi di conciliazione e arbitrato (art. 412 ter e quater c.p.c.). È pacifico che l’accordo in esame è stato sottoscritto dal datore di lavoro e dal lavoratore, alla presenza di un rappresentante sindacale, presso i locali della società. Tali modalità non soddisfano i requisiti normativamente previsti ai fini della validità delle rinunce e transazioni in base alle disposizioni richiamate e correttamente la sentenza impugnata ha dichiarato la nullità dell’accordo in esame. Nel sistema normativo sopra descritto, la protezione del lavoratore non è affidata unicamente alla assistenza del rappresentante sindacale, ma anche al luogo in cui la conciliazione avviene, quali concomitanti accorgimenti necessari al fine di garantire la libera determinazione del lavoratore nella rinuncia a diritti previsti da disposizioni inderogabili e l’assenza di condizionamenti, di qualsiasi genere. Le citate disposizioni del codice di procedura civile individuano infatti non solo gli organi dinanzi ai quali possono svolgersi le conciliazioni ma anche le sedi ove ciò può avvenire, come emerge in modo inequivoco dal tenore letterale delle stesse.
Spiace dirlo ma in maniera quantomeno sospetta e quasi “per mettere le mani avanti” nella Sentenza si legge:
I luoghi selezionati dal legislatore hanno carattere tassativo e non ammettono, pertanto, equipollenti, sia perché direttamente collegati all’organo deputato alla conciliazione e sia in ragione della finalità di assicurare al lavoratore un ambiente neutro, estraneo al dominio e all’influenza della controparte datoriale (non depone in senso contrario Cass. n. 1975 del 2024, concernente una conciliazione ai sensi dell’art. 412 ter c.p.c.)”.
Quindi l’ordinanza cita a conferma delle proprie posizioni la sentenza n.1975, ma in maniera poco credibile perché, come abbiamo visto, entrambe le sentenze prendono in considerazione la stessa fattispecie e il principio dedotto è del tutto analogo nei presupposti, ma arrivano ad un risultato completamente differente.
L’ordinanza n.10065 verosimilmente accomuna le conciliazioni dell’art. 412 ter c.p.c. (che sono quelle previste dai CCNL) e l’art. 411 c.p.c. (che riguardano le conciliazioni in sede sindacale). Si tratta di fattispecie analoghe ma differenti.
Spesso le conciliazioni in sede sindacale vengono ricondotte “atecnicamente” sia all’una che all’altra fattispecie, sebbene più correttamente, si debba ritenere che le conciliazioni in sede sindacale, che prevedano la presenza di un solo conciliatore e si concludano positivamente con la sottoscrizione di un verbale, siano proprio quelle stipulate ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 411 c.p.c. Questo perché i CCNL spesso non normano secondo quanto previsto dall’art. 412 ter c.p.c. ma anche perché – in secondo luogo – ove sussistano le norme del CCNL, le modalità ivi indicate rendono inutilmente gravoso il meccanismo, immediato e privo di troppi vincoli formali, scaturente dall’art. 411 c.p.c. e sono quindi difficilmente sovrapponibili al modello agile previsto dall’art. 411, che esplicitamente esclude le disposizioni e quindi la procedura prevista dall’art. 410 per le conciliazioni presso la Direzione Provinciale del Lavoro.
Per fare un esempio vediamo cosa prescrive in materia di conciliazioni il CCNL Commercio:
“CCNL COMMERCIO Art. 39 – Procedure
Ai sensi di quanto previsto dagli artt. 410 e seguenti del codice di procedura civile, per tutte le controversie individuali singole o plurime relative all’applicazione del presente contratto e di altri contratti e accordi comunque riguardanti rapporti di lavoro nelle aziende comprese nella sfera di applicazione del presente contratto, è previsto il tentativo di conciliazione in sede sindacale secondo le norme e le modalità di cui al presente articolo da esperirsi nella Commissione Paritetica Territoriale di conciliazione costituita presso l’Ente Bilaterale Territoriale del Terziario.
La Commissione di conciliazione territoriale è composta:
a) per i datori di lavoro, da un rappresentante dell’Associazione o Unione competente per territorio;
b) per i lavoratori, da un rappresentante dell’Organizzazione sindacale locale firmataria del presente contratto della FILCAMS-CGIL, della FISASCAT-CISL o della UILTuCS-UIL, cui il lavoratore sia iscritto o abbia conferito mandato.
La parte interessata alla definizione della controversia è tenuta a richiedere il tentativo di conciliazione tramite l’Organizzazione sindacale alla quale sia iscritta e/o abbia conferito mandato.
L’Associazione imprenditoriale ovvero l’Organizzazione sindacale dei lavoratori che rappresenta la parte interessata deve a sua volta denunciare la controversia alla Commissione Paritetica Territoriale di conciliazione per mezzo di lettera raccomandata A/R, trasmissione a mezzo fax o consegna a mano in duplice copia o altro mezzo idoneo a certificare la data di ricevimento.
Ricevuta la comunicazione la Commissione Paritetica Territoriale provvederà entro 20 giorni alla convocazione delle parti fissando il giorno e l’ora in cui sarà esperito il tentativo di conciliazione. Il tentativo di conciliazione deve essere espletato entro il termine di 60 giorni.
Il suddetto termine di 60 giorni decorre dalla data di ricevimento o di presentazione della richiesta da parte dell’Associazione imprenditoriale o della Organizzazione Sindacale a cui il lavoratore conferisce mandato.
La Commissione Paritetica Territoriale esperisce il tentativo di conciliazione ai sensi degli artt. 410, 411 e 412 c.p.c.
Il processo verbale di conciliazione o di mancato accordo viene depositato a cura della Commissione di conciliazione presso l’Ispettorato Territoriale del Lavoro competente per territorio e a tal fine deve contenere:
il richiamo al contratto o accordo collettivo che disciplina il rapporto di lavoro al quale fa riferimento la controversia conciliata;
la presenza dei rappresentanti sindacali le cui firme risultino essere depositate presso la Direzione Provinciale del Lavoro;
la presenza delle parti personalmente o correttamente rappresentate.
Qualora le parti abbiano già trovato la soluzione della controversia tra loro insorta, possono richiedere, attraverso spontanea comparizione, di conciliare la stessa ai fini e per gli effetti del combinato disposto degli artt. 2113, comma 4 c.c., 410 e 411 c.p.c. in sede di Commissione Paritetica Territoriale di conciliazione.
Le decisioni assunte dalla Commissione Paritetica Territoriale di conciliazione non costituiscono interpretazione autentica del presente contratto, che pertanto resta demandata alla Commissione Paritetica Nazionale di cui all’art. 17.
In caso di richiesta del tentativo di conciliazione per una controversia relativa all’applicazione di una sanzione disciplinare, questa verrà sospesa fino alla conclusione della procedura. “
Resta peraltro incerto cosa si intenda con la frase “mura sindacali”, intendendo evidentemente con questa definizione i soli sindacati dei lavoratori, ma dimenticando che la sede sindacale potrebbe essere pure quella datoriale come nel caso di sottoscrizioni presso Confindustria, che è pur sempre una sede sindacale.
Anche in tali casi dovremmo ritenere invalida la transazione?
L’ordinanza sembra dunque privilegiare un dato, per così dire, topografico del tutto formale a discapito di motivazioni di tipo sostanziale.
Così sarebbero valide le conciliazioni sottoscritte presso la sede dei sindacati “di comodo”, come quelli vietati dall’art. 17 dello Statuto dei lavoratori, perché finanziati dal datore di lavoro.
Ma senza scomodare i sindacati di comodo, sarebbero valide le conciliazioni in sede sindacale senza che sia prestato un ruolo attivo da parte del conciliatore con conciliazioni del tutto fittizie, in cui il lavoratore (magari monetizzando somme ridicole) rinuncia a diritti dei quali neppure conosce – e nessuno gli ha consentito di conoscere – l’esistenza. Basterebbe quindi recarsi presso tali sedi sindacali per sentirsi più tutelati sulla “resistenza” del verbale sottoscritto.
E a quale conclusione si può pervenire con riguardo alle conciliazioni da remoto che sono state utilizzate durante il periodo Covid, anche in sede giudiziale, in cui evidentemente il luogo di sottoscrizione neppure si conosce?
L’ordinanza è in controtendenza anche rispetto all’indirizzo dettato dal legislatore che, con l’art. 20 del DDL approvato dal Senato il 9 dicembre scorso, ha previsto che i procedimenti di conciliazione in materia di lavoro previsti dagli artt. 410, 411 e 412 ter del c.p.c. potranno svolgersi in modalità telematica mediante collegamenti audiovisivi, e che con successivo decreto del Ministero del Lavoro da emanarsi entro 12 mesi, saranno disposte le regole tecniche e le modalità applicative di tali modalità telematiche.
Ma il DDL non porta nessuna novità perché dopo il COVID è prassi che le conciliazioni si facciano da remoto e le parti datoriale e sindacale hanno già stipulato accordi territoriali in tal senso.
Molto ben fatto è quello stipulato il 22 ottobre 2024 a Treviso, posteriore dunque alla pronuncia n. 10065 del 15/4/2024, di cui ho detto in apertura, «per l’individuazione delle sedi e delle modalità per le conciliazioni delle controversie di lavoro (artt. 411 e 412-ter c.p.c.)», anche qualora queste si svolgano “da remoto”. Firmatari dell’accordo risultano essere la Confindustria Veneto Est e le confederazioni sindacali locali CGIL, CISL e UIL. Scopo dell’accordo è quello di «individuare le sedi e le modalità idonee alla stipulazione di conciliazioni individuali in materia di lavoro» in sede sindacale, al fine di sottrarre gli accordi conciliativi dal regime di impugnazione previsto dall’art. 2113, comma 2 c.c. (come prevede espressamente l’art. 2113, comma 4 c.c.).
L’accordo prevede espressamente che per “sede sindacale” deve intendersi «qualunque luogo e/o locale», inclusi i locali dell’impresa, o quelli dell’associazione datoriale firmataria, «che sia concordemente individuato quale sede di stipulazione della conciliazione da parte del lavoratore, dell’organizzazione sindacale che lo assiste, del datore di lavoro e di Confindustria Veneto Est».
Inoltre, l’accordo prevede espressamente che la conciliazione si intenderà validamente stipulata ai sensi dell’art. 2113, comma 4 c.c. “in sede sindacale” anche quando questa «sia conclusa in modalità “da remoto”, ovvero per il tramite di piattaforme telematiche che mettano in contatto le parti non fisicamente presenti in uno stesso locale, purché tali piattaforme consentano la identificabilità delle parti stesse».
Infine, l’accordo definisce alcuni requisiti che la conciliazione in sede sindacale deve presentare ai fini della produzione degli effetti di cui all’art. 2113, comma 4 c.c. (cioè l’inoppugnabilità) tra i quali:
a) l’effettiva assistenza da parte del sindacalista affinché il lavoratore, una volta reso consapevole del contenuto dell’accordo, sia messo in condizione di poter valutare l’opportunità di sottoscrivere il verbale di conciliazione;
b) la contestuale presenza del sindacalista nel medesimo luogo in cui si trova il lavoratore al momento della conciliazione, anche quando questa si svolga da remoto;
c) la necessità di dare atto nel verbale di conciliazione della consapevolezza da parte del lavoratore del luogo prescelto per negoziare l’accordo di conciliazione e della assistenza sindacale ricevuta;
d) nel caso di conciliazioni da remoto, è necessario che il verbale sia sottoscritto dalle parti «tramite firma autografa su copia analogica» dell’accordo condiviso tramite scansione, escludendo così la possibilità di poter utilizzare la firma digitale certificata.
Si ritiene, dunque, che la decisione cui perviene la pronuncia n. 10065 sia inutilmente formalistica e non consideri adeguatamente i presupposti di validità delle conciliazioni, poco sopra delineati in modo telegrafico.
Il legislatore con il termine “sede sindacale” non intende indicare come “sede” un termine tecnico (le mura), ma piuttosto il contesto in cui avvengono questi tipi di incontri di volontà. Ove vi sia una efficace, tecnica, consapevole ed effettiva tutela del sindacalista, il luogo fisico in cui si firma, non conta e non può essere il luogo fisico a rendere più efficace una partecipazione del sindacalista affrettata e risibile.
A me pare che si potrà continuare a sottoscrivere le conciliazioni in qualsiasi sede torni comoda, ferma l’efficacia ed effettività dell’intervento del sindacato a vantaggio del consenso genuino del lavoratore.
Alla luce, però, della indubbia esistenza della avversata e criticata pronuncia n.10065, e soprattutto dell’inversione dell’onere della prova di cui alla citata ord.n.1975, nel caso in cui ciò non arrechi troppe difficoltà, il mio suggerimento è essere quello di sottoscrivere le conciliazioni, quando possibile, presso la sede del sindacato del lavoratore.
IL REQUISITO DELL’EFFETTIVA ASSISTENZA
Anche alla luce delle sentenze sopra analizzate non si può fare finta di non avvertire come la recente casistica giurisprudenziale costituisca un campanello di allarme per il datore di lavoro, che ritiene tali accordi totalmente inoppugnabili in quanto firmati in sede protetta.
Sono sempre più numerose, infatti, le pronunce e non solo di merito, ma anche di legittimità, che hanno sancito l’invalidità degli accordi transattivi in sede sindacale, se privi di determinate caratteristiche.
Io credo che, considerato l’utilizzo disinvolto che si è cominciato a fare per le conciliazioni sottoscritte nell’ambito della negoziazione assistita, tra non molto analoga giurisprudenza si riproporrà anche per tali conciliazioni.
Innanzitutto, la transazione in sede sindacale, per essere valida, deve comportare l’effettiva attività di assistenza da parte del conciliatore, al quale il lavoratore abbia conferito specifico mandato.
Il conciliatore sindacale non è un pubblico ufficiale ma un semplice terzo che, in sede sindacale e nel momento in cui le parti addivengono ad un determinato assetto di interessi, garantisce con la sua presenza l’assenza di uno stato di inferiorità o soggezione tra lavoratore e datore del lavoro, che giustifica la previsione di cui all’art. 2113, co. 4, cod. proc. civ. e cioè l’immediata validità di tale conciliazione che non può essere impugnata nel termine di sei mesi (Cass., n. 9255/16).
Non basta la sola presenza ma è necessaria la prestazione di una attività proattiva. Il conciliatore deve Non basta la sola presenza ma è necessaria la prestazione di una attività proattiva. Il conciliatore deve preventivamente informare il lavoratore in merito alla reale portata dei diritti maturati e dismessi o disposti diversamente rispetto a quanto previsto dalla legge o dal contratto collettivo, nonché in relazione alle conseguenze derivanti dalla sottoscrizione della transazione in sede sindacale(Cass. ordinanza n. 16154 del 9 giugno 2021).
La giurisprudenza ha indagato in numerose occasioni i limiti ed i requisiti di validità del verbale di conciliazione in sede sindacale. Appresso un elenco delle pronunce che mi sembrano più adatte ad evidenziare i requisiti di validità della conciliazione sindacale di matrice giurisprudenziale.
Prima di tutto, è necessario che il lavoratore sia assistito, durante la sottoscrizione da un soggetto appartenente ad un’organizzazione sindacale in veste di conciliatore. Ma ciò non è sufficiente, come ho accennato, essendo essenziale il requisito dell’effettività dell’assistenza sindacale che sola “può porre il lavoratore in condizione che dall’atto stesso si evincano la questione controversa oggetto della lite e le reciproche concessioni in cui si risolve il contratto transattivo ai sensi dell’art. 1965 c.c” (Cass.9006/19).
La partecipazione dei rappresentanti sindacali all’iter transattivo deve essere effettiva “poiché tale partecipazione fa venire meno la condizione di inferiorità del lavoratore, del quale dunque si garantisce una sostanziale libertà di volontà” (Cass.2244/95).
Il conciliatore sindacale, da nominarsi da parte del lavoratore, deve cioè illustrare con dovizia le motivazioni dell’atto fugando i dubbi del lavoratore: “L’accordo tra il lavoratore ed il datore di lavoro, nel quale sia identificata la lite da definire ovvero quella da prevenire […] è qualificabile come atto di transazione ed assume rilievo, quale conciliazione in sede sindacale ai sensi dell’art. 411, terzo comma, c.p.c., ove sia stato raggiunto con un’effettiva assistenza del lavoratore da parte di esponenti dell’organizzazione sindacale indicati dal medesimo, dovendosi valutare, a tal fine, se, in relazione alle concrete modalità di espletamento della conciliazione, sia stata correttamente attuata la funzione di supporto che la legge assegna al sindacato nella fattispecie conciliativa” (Cass. 13217/08).
Analogamente Cass. 24024/13: “In materia di atti abdicativi di diritti del lavoratore subordinato, le rinunce e le transazioni aventi ad oggetto diritti del prestatore di lavoro previsti da disposizioni inderogabili di legge o di contratti collettivi, contenute in verbali di conciliazione conclusi in sede sindacale, non sono impugnabili, a condizione che l’assistenza prestata dai rappresentanti sindacali – della quale non ha valore equipollente quella fornita da un legale – sia stata effettiva, così da porre il lavoratore in condizione di sapere a quale diritto rinunci e in quale misura, nonché, nel caso di transazione, a condizione che dall’atto stesso si evinca la questione controversa oggetto della lite e le “reciproche concessioni” in cui si risolve il contratto transattivo ai sensi dell’art. 1965 cod. civ.”.
La giurisprudenza di legittimità, con molta incertezza circa le modalità pratica del conferimento, ha ritenuto necessaria la presenza di un mandato sindacale specifico conferito non nell’imminenza della conciliazione e financo di un’assistenza fornita dal sindacato di appartenenza del lavoratore e non da altri (Cass. n. 16168/2004).
Ma in senso contrario si è pronunciata l’ordinanza del 18 Gennaio 2023 n.1975 che abbiamo analizzato in apertura, che afferma che questo è al più soltanto un indizio restando invece concludente il fatto che l’assistenza sia stata di fatto prestata.
Torneremo più avanti sull’argomento della validità del mandato sindacale.
In ogni caso il soggetto sindacale con funzioni di conciliatore deve appartenere ad un’organizzazione sindacale genuina. Non è necessario, invece, che il sindacalista appartenga ad un’organizzazione sindacale maggiormente (o comparativamente più) rappresentativa sul piano nazionale, ben potendo egli far parte di un’organizzazione sindacale diffusa a livello locale. La funzione dell’organizzazione sindacale in un simile contesto, infatti, non è quella di manifestare la propria forza contrattuale, ma di assistere il lavoratore nella sottoscrizione del verbale.
La questione che posta in questi termini sembra logica è stata invece oggetto di discussione.
Il Ministero del Lavoro, con nota del 16 marzo 2016 n. 37/5199, aveva dato indicazioni ai propri Ispettorati Territoriali di verificare che le organizzazioni sindacali che effettuano il deposito dei verbali di conciliazione avessero il requisito della maggiore rappresentatività e abbiano rispettato le procedure previste dai CCNL.
Nella nota ministeriale si ribadiva che per essere valida, la conciliazione in sede sindacale deve avvenire “presso le sedi e con le modalità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative”, come dispone l’art. 412-ter c.p.c., e applicati dall’azienda.
Conseguentemente, i verbali sottoscritti in sedi diverse da quelle previste dai CCNL e con Associazioni imprenditoriali e Organizzazioni sindacali diverse da quelle firmatarie dei CCNL applicati, sono privi del requisito di non impugnabilità.
La nota ministeriale verosimilmente sovrappone la fattispecie prevista dall’art. 412-ter c.p.c. a quella prevista dall’art. 411 c.p.c.: si tratta in realtà di due fattispecie analoghe ma non identiche.
Avremo occasione di tornare sull’argomento più avanti.
Come dicevamo circa l’incertezza della giurisprudenza sul tema del mandato sindacale, non è chiaro se il sindacalista debba essere quello scelto dal lavoratore, ovvero possa essere un sindacalista individuato nell’immediato al momento della sottoscrizione. La questione a pensarci bene non è di particolare rilevanza: ciò che conta è che il conciliatore svolga la sua funzione di avvertimento e informazione.
Ci sono delle sentenze nelle quali si ritiene che sicuramente “attaccabile” il verbale sottoscritto alla presenza di un sindacalista chiamato dal datore di lavoro all’ultimo momento, senza avere alcuna conoscenza della vicenda (Come per esempio ha affermato l’Ordinanza n.1975 del 18 gennaio 2024, che abbiamo analizzato in apertura e che ritiene la circostanza come un indizio dell’assenza di una adeguata assistenza da parte del conciliatore).
Più netta la posizione assunta dalla Sentenza resa dal Tribunale di Bari il 6 aprile 2022, con la quale è stato affermato che se l’assistenza al lavoratore, nell’ambito di una transazione in sede sindacale, è stata resa dal rappresentante di una sigla sindacale alla quale il dipendente non ha aderito o meglio ha aderito solo al momento della stipula della transazione , allora l’accordo non è valido ed efficace e può essere impugnato.
Ma in senso contrario la Sentenza 16154/2021 afferma che, proprio in merito alla contestazione da parte del lavoratore di non avere mai prima conosciuto il conciliatore prima della conciliazione, afferma esattamente il contrario: la compresenza del lavoratore e del conciliatore al momento della sottoscrizione del verbale lascia presumere l’adeguata assistenza.
Quello che è certo è che le OO.SS solitamente richiedono, per la formalizzazione di una conciliazione, l’iscrizione del lavoratore al sindacato, iscrizione che però viene formalizzata lo stesso giorno della conciliazione.
Il punto cruciale rimane quindi quello dell’effettiva assistenza prestata dal sindacalista e ricevuta dal lavoratore durante la lettura e la sottoscrizione del verbale.
Devo infine segnalare la isolata sentenza del Tribunale di Roma (8 maggio 2019, n. 4354), che ha dato un’interpretazione piuttosto restrittiva all’art. 2113, comma quarto, c.c. Il caso oggetto della decisione del Tribunale riguarda proprio l’ipotesi di una conciliazione sindacale avvenuta nella sala riunioni di un’azienda alla presenza di un consulente del lavoro e di un rappresentante sindacale. Nella sentenza, da un lato, è ribadito un principio giurisprudenziale ormai consolidato, secondo il quale l’assistenza prestata da un sindacalista al lavoratore deve essere effettiva; dall’altro lato, invece, viene espresso un principio del tutto innovativo.
In particolare, secondo il giudice di merito, “il regime di inoppugnabilità concerne le sole conciliazioni sindacali espletate nelle sedi protette di cui all’ultimo comma dell’art. 2113, che richiama specificamente l’art. 412-ter e dunque le sole conciliazioni sindacali che avvengono presso le sedi e con le modalità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative”: in mancanza di una specifica disposizione del contratto collettivo relativa alla conciliazione sindacale, dunque, una simile conciliazione non sarebbe possibile. Secondo il Tribunale di Roma, infatti, l’art. 412-ter ha la funzione di assicurare la pienezza della tutela del lavoratore, dal momento che la conciliazione sindacale incide sui suoi diritti inderogabili: l’assenza di una specifica disciplina collettiva concernente le sedi e le procedure da seguire nell’ambito di una procedura sindacale non garantisce una simile tutela e, pertanto, l’eventuale verbale sottoscritto dalle parti sarebbe impugnabile. Pare evidente, agli occhi del giudice di merito, che “(…) l’art. 2113 ultimo comma c.c., nel rinviare espressamente all’art. 412-ter (oltre che agli art. 185, 401, 412-quater) intende attribuire soltanto ed esclusivamente a questo tipo di conciliazioni la prerogativa della non impugnabilità”.
La sentenza, emessa ormai da più di cinque anni, è rimasta isolata e non ha avuto seguito. Tutta la giurisprudenza, laddove affronta le possibili criticità dei verbali di conciliazione, ammette indirettamente la possibilità di stipulare conciliazioni senza le formalità previste dall’art. 410, proprio come previsto dall’art. 411.
Resta il sospetto che il giudice sia caduto nell’errore di sovrapporre le due fattispecie previste dall’art. 412-ter e 411.
Anche a volere sposare la motivazione della sentenza, resterebbe inspiegabile la ragione per la quale il legislatore, nell’art. 2113, ha espresso un richiamo dell’art. 411 che, come detto, esclude esplicitamente la necessità della procedura dell’art. 410.
Se la sola conciliazione sindacale non impugnabile fosse quella disciplinata dai contratti collettivi stipulati dai sindacati maggiormente rappresentativi, sarebbe stato sufficiente il rinvio all’art. 412-ter, senza necessità di richiamare anche l’art. 411.
La sentenza nulla dice circa quei CCNL, peraltro la maggior parte, dove non sono previste procedure di conciliazione, ovvero i modelli di conciliazione, spesso disattesi proprio da parte sindacale, non si possono sovrapporre alle conciliazioni in sede sindacale e, di fatto, non sembra possibile che la sentenza possa ribaltare un andamento della giurisprudenza consolidatosi in mezzo secolo, nel corso del quale la conciliazione sindacale si è – di fatto – svolta ai fini previsti dall’art. 2113 c.c., a prescindere da qualunque meccanismo procedurale di fonte negoziale.
L’IMPUGNAZIONE DELLA CONCILIAZIONE SINDACALE PER VIZI DEL CONSENSO
Pur essendo sottoscritto in sede sindacale, nella sede del sindacato, da un sindacalista ben conosciuto dal lavoratore e con la necessaria assistenza in sede di sottoscrizione, il verbale di conciliazione può essere impugnato dal lavoratore per un vizio del consenso (errore, violenza, dolo).
A titolo esemplificativo, la Corte di Cassazione ha ritenuto sussistente il dolo omissivo dell’azienda/datore di lavoro nella seguente ipotesi:
un lavoratore veniva licenziato all’esito della procedura prevista per i licenziamenti collettivi e a seguito della sottoscrizione in sede sindacale di un verbale che indicava espressamente la soppressione del posto della funzione del dipendente; poco tempo dopo, la società assumeva un altro lavoratore per le medesime mansioni di quello licenziato. I giudici di legittimità hanno sottolineato che “il silenzio serbato da una delle parti in ordine a situazioni di interesse della controparte e la reticenza, qualora l’inerzia della parte si inserisca in un complesso comportamento adeguatamente preordinato, con malizia o astuzia, a realizzare l’inganno perseguito, determinando l’errore del lavoratore, integrano gli estremi del dolo omissivo rilevante ai sensi dell’art. 1439 c.c.” (Cass. 30 marzo 2017, n. 8260).
Tali artifizi vanno comunque parametrati alla situazione di fatto, e alla loro idoneità a trarre in inganno un soggetto mediamente diligente, non essendo tutelato invece colui il cui affidamento si basi sulla negligenza (Cass. 20792/04).
L’impugnazione del verbale di conciliazione in sede sindacale per vizio del consenso è assoggettata al termine quinquennale previsto per le azioni di annullamento.
CONCLUSIONI
Ai fini di evitare l’impugnazione e la conseguente invalidità del verbale di conciliazione, devono essere rispettate le seguenti condizioni:
Il conciliatore deve essere il sindacalista scelto dal lavoratore e il lavoratore deve essere iscritto al sindacato. L’iscrizione deve essere preferibilmente formalizzata almeno qualche giorno prima della sottoscrizione del verbale di conciliazione.
Qualora il CCNL preveda specifiche sedi o modalità di svolgimento della conciliazione, queste devono essere seguite, per quanto possibile, dalle parti. In ogni caso è preferibile sottoscrivere il verbale di conciliazione presso il sindacato del lavoratore.
L’assistenza prestata dalle organizzazioni sindacali durante la conciliazione deve essere effettiva. Il conciliatore deve rappresentare al lavoratore quale è l’oggetto e l’entità dei diritti oggetto della sua rinuncia e quali sono i diritti che gli spettano secondo la legge e il CCNL e che potrebbe fare valere in sede giudiziaria ed il fatto che la sottoscrizione del verbale avrà l’effetto di non poter più ridiscutere, in nessuna sede, di quei diritti oggetto di rinuncia. Nel verbale deve essere dato atto che detta attività è stata espletata dal conciliatore.
– il consenso del lavoratore non deve essere viziato da errore, violenza, dolo. Pertanto il datore di lavoro dovrà mantenere, nel periodo successivo alla sottoscrizione dell’accordo, un comportamento che non sia in contrasto con quanto rappresentato al lavoratore ovvero che disveli una realtà nascosta in sede di conciliazione.
Oristano 13 dicembre 2024
L’Avvocato Andrea Dedoni, è nato a Carbonia il 30 Settembre 1964 ed è iscritto all’albo degli Avvocati della provincia di Cagliari dal 1997.
E’ il titolare dello studio legale Dedoni , coordina, organizza e supervisiona il lavoro di tutti i collaboratori dello studio .
Le competenze dell’Avvocato Dedoni sono il Diritto del Lavoro, il Diritto Civile ed il Diritto Fallimentare. Vanta un’esperienza trentennale nella gestione dei rapporti di lavoro e nel contenzioso nel lavoro: è socio dell’Associazione Giuslavoristi Italiani e dell’Associazione Giuslavoristi Sardi.